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Si tiene oggi, 15 novembre, a Roma un seminario promosso dalla Cgil dal titolo "Fiscal Compact vs sviluppo e coesione". L'iniziativa vede impegnati economisti, docenti universitari e dirigenti sindacali per analizzare in maniera critica gli effetti che il Patto ha avuto sulle economie del vecchio continente dal 2013, anno di entrata in vigore, a oggi. Le conclusioni sono affidate a Susanna Camusso. Tra gli interventi previsti, anche quello dell'autore dell'articolo che segue
A poco più di un mese alla fine probabile della legislatura, è ragionevole ritenere che l’approvazione della legge Finanziaria 2018 diventerà l’orizzonte degli eventi per il governo corrente. Non è un caso che il ministro Padoan abbia impostato ancora una volta una manovra volta a disinnescare – temporaneamente – le clausole di salvaguardia che imporrebbero pesantissimi aumenti dell’Iva a partire dal 2018.
Il governo è ben consapevole che un punto in più di Iva comporterebbe 0,8 punti di Pil in meno nell’arco di due anni. Le regole imposte dall’adesione al Fiscal Compact imporrebbero l’Iva entro il 2019 a un tetto massimo del 27 per cento, un valore che porrebbe l’Italia ai valori massimi dell’eurozona, insieme all'Ungheria. Se consideriamo che siamo attualmente al 22 per cento, l’attivazione completa delle clausole di salvaguardia costerebbe nel 2018- 2020 circa 3 punti di Pil al Paese.
Tuttavia anche quest’anno la disattivazione delle clausole, al costo di circa 15 miliardi di euro di coperture e a fronte di una manovra che dovrebbe girare intorno ai 20, sarà limitata all’esercizio di bilancio 2018. C’è una ragione: oltre alle scadenze ufficiali, questo governo ne ha anche un’altra meno evidente. Rimane in piedi, infatti, l’articolo 16 del Trattato di stabilità, coordinazione e crescita (Tscg) firmato nel 2012, che impone l’assimilazione del Trattato all’interno delle leggi europee entro la fine del 2017. Si tratta dell’atto formale che chiamiamo – a volte con imprecisione – la “ratifica” del Fiscal Compact. Il Trattato dura infatti cinque anni e non è chiaro se possa andare in prorogatio se non si dovesse procedere agli atti ufficiali di assimilazione.
A metà novembre ci sono pochi indizi ufficiali su cui fare riferimento: il presidente della Commissione europea, Juncker, nel discorso sullo Stato dell’Unione del 13 settembre, con annessa lettera di intenti all’europarlamento, ha annunciato che la Commissione avrebbe fatto una proposta formale “a breve” senza un’indicazione temporale precisa. Alcuni giorni fa il ministro Padoan ha dichiarato che all’ultimo eurogruppo il tema Fiscal Compact è stato discusso e che probabilmente a dicembre (quindi a ridosso del possibile scioglimento delle Camere) ci saranno dei passi in avanti verso una semplificazione delle norme, si spera in relazione con la controversa formula di calcolo dell’output gap che ha penalizzato il nostro Paese e su cui il governo ha condotto – direi stavolta con autorevolezza – la propria personale battaglia in Europa.
Appare dunque probabile un inserimento nell’agenda del governo, in zona pre-natalizia, del tema Fiscal Compact. Non sono ancora definiti i passi tecnici necessari. In relazione infatti all’obiettivo che eurogruppo e Commissione si porranno, potrebbe essere necessaria una votazione all’unanimità o a maggioranza qualificata.
Non bisogna però pensare che l’assimilazione del Fiscal Compact sia un tema a sé stante, svincolato dagli altri complessi sviluppi del processo di integrazione europea. Gran parte dei vincoli sulla politica fiscale del governo italiano sono già into force, anche se senza lo stesso sistema sanzionatorio, grazie al recepimento in Costituzione del pareggio di bilancio, e del cosiddetto Six Pack, un insieme di direttive e regolamenti comunitari che modificano strutturalmente il Patto di stabilità e crescita.
Non è un caso che nel discorso sullo Stato dell’Unione Juncker proietti l’assimilazione del Fiscal Compact nel più ampio quadro della riforma del Fondo salva-Stati Esm in un pervasivo Fondo monetario europeo che sia accompagnato da un ministro delle Finanze europeo dotato di un autonomo budget. Il punto è questo: il Fondo salva-Stati attualmente garantisce la possibilità di accedere fino a 500 miliardi di liquidità per quei Paesi dell’eurozona che vadano in difficoltà finanziaria. Certo, al costo di dure condizionalità imposte da quello che è l’azionista di maggioranza, cioè la Germania. Peraltro anche l’Italia ha contribuito con 18 miliardi (di nuovo debito pubblico) al capitale del Fondo, anche se non ha grosse voce in capitolo.
Sul futuro dell’Esm non c’è unità di visione nell’eurozona: nella versione tedesca delineata da Schäuble l’obiettivo è quello di svuotare il Fondo della capacità di erogare fondi ai Paesi in difficoltà; l’Esm dovrebbe cercare dunque di sborsare il meno possibile, trasferendo l’onere sui creditori privati. Infatti, nell’accedere al Fondo il governo richiedente dovrebbe sospendere innanzitutto il pagamento degli interessi; poi in alcuni anni il debito dovrebbe essere ristrutturato imponendo un haircut ai detentori di titoli. Solo una minima parte delle risorse necessarie sarebbe sborsata direttamente dall’Esm; in sostanza il Fondo si impegnerebbe innanzitutto a salvare sé stesso. Nuovi poteri verrebbero assegnati al Fondo. L’Esm/Fme dovrebbe vigilare sul rispetto del Fiscal Compact con poteri penetranti di intervento nella determinazione delle politiche fiscali nazionali. In pratica il Fondo si trasformerebbe de facto nella nuova Troika, senza i lacci della diplomazia intergovernativa e dell’influenza terza del Fondo monetario internazionale.
Ritengo che ci possa essere una prospettiva differente, non solo nella riforma dell’Esm, ma di tutta l’architettura dell’eurozona, che trovi fondamento nella condivisione dei rischi. L’unione monetaria non può esistere senza risk-sharing, cioè nella necessità di garantire una redistribuzione delle risorse dai Paesi più forti a quelli più deboli. L’euro rimane per costruzione una valuta forte per la maggioranza dei Paesi membri, dato che è una costola del marco e tende a drenare naturalmente risorse verso la Germania e in parte la Francia. Non è una “colpa” da attribuire ai tedeschi; si tratta semplicemente di mettere in atto dei meccanismi di riequilibrio che sono normali in qualunque area valutaria unica.
Il nuovo Fondo monetario europeo dovrebbe essere – finalmente – il garante di ultima istanza di tutto il debito pubblico dell’eurozona. Non sarebbe gratis: ogni paese dovrebbe versare contributi in relazione alla valutazione di mercato del proprio rischio. In questo modo il Fondo avrebbe un capitale più ampio e un merito di credito tale da rastrellare senza sforzo capitali a bassissimo costo per finanziare investimenti pubblici su larga scala all’interno dei Paesi membri, sempre in proporzione alle contribuzioni. Niente più di quello che il Fondo già fa, ma con un focus sull’economia reale in grado di colmare il deficit di investimenti che frena la ripresa economica.
Allargando l’orizzonte, credo che il tema della gestione del debito pubblico debba essere affrontato in sinergia con l’urgenza di tenere sotto controllo il debito privato. In questo senso la controversa proposta Bce sul trattamento contabile delle sofferenze parte da un principio giusto, ma lo declina in una maniera fortemente penalizzante per economie dipendenti dal credito bancario e soffocate da un sistema giudiziario lento, come quella italiana e greca.
Di nuovo è possibile lavorare su soluzioni out of the box per gestire la questione dei crediti deteriorati, spostando il baricentro di analisi dall’interesse della banca, che punta a recuperare quanto più credito possibile, a quello del policy-maker che minimizza i costi per l’economia nel suo complesso. In questa prospettiva, sarebbe necessaria a livello comunitario una diversa Asset quality review, che discrimini quanti (e quali) crediti deteriorati siano ascrivibili a un tessuto produttivo oramai “defunto” e quanti siano sulle spalle di imprese in difficoltà, ancora sul mercato e meritevoli di rilancio. Nel mio libro “La Moneta incompiuta” ho presentato una soluzione ottimale che predisponesse, per il primo caso, la creazione di un veicolo a livello europeo in grado di cartolarizzare i crediti deteriorati “morti” e di predisporre le misure più efficienti per la massimizzazione del recupero dei prestiti a livello giudiziale. Questo veicolo avrebbe contato sul supporto della Bce attraverso il programma di acquisto di Abs del Quantitative Easing (Abspp) e su limitate garanzie degli Stati membri sulle tranche cartolarizzate più rischiose.
Nella mia visione i crediti deteriorati ma “vivi” troverebbero invece adeguato trattamento attraverso il cosiddetto salva-imprese, una soluzione normativa per superare la prassi di svalutare i crediti bancari, mantenendoli nei bilanci di banca e impresa al valore nominale inclusivo degli interessi rimuovendo la segnalazione in Centrale dei rischi dell’impresa in sofferenza come cattivo pagatore. Una proposta dunque una nuova contabilità che sincronizzi i bilanci di banca e impresa al valore del credito svalutato. Un haircut che non è un condono perché riflette quanto il contribuente ha già pagato per via dei mancati gettiti fiscali. La sofferenza sorta nel periodo di crisi (non la nuova) verrebbe quindi trasformata in un credito in bonis nel bilancio della banca attraverso una garanzia dello Stato a prezzo di mercato.
Il progetto ha già raggiunto le aule del Parlamento come proposta di legge qualche mese fa e dovrebbe essere discusso a breve. In definitiva, il panorama legislativo con cui confrontarsi e che determina il fato della ripresina italiana potrebbe modificarsi piuttosto velocemente.
Marcello Minenna è docente alla Graduate School of Mathematical Finance