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Si apre oggi (14 settembre) a Lecce l'Assemblea generale della Cgil. Il sindacato pone all'ordine del giorno le proposte per il rilancio delle regioni del Sud. L'ultimo rapporto Svimez ha confermato le grandi difficoltà del Mezzogiorno nel nostro Paese: finito il sorpasso dell'anno scorso, alla fine del 2017 il Sud crescerà meno del Centro-Nord, registrando la permanenza di ampie sacche di povertà e il fenomeno della migrazione di giovani laureati. Di questo passo, secondo le previsioni, solo nel 2028 si tornerà ai livelli pre-crisi.
La risposta del governo a questo stato di cose si è limitata all'approvazione del Decreto Sud, ma per la confederazione, si tratta di un provvedimento che non risolve i problemi: è una misura largamente insufficiente, mentre manca una programmazione a lungo termine. L'Assemblea generale arriva subito prima delle Giornate del lavoro, che si tengono nel capoluogo salentino il 15, 16 e 17 settembre. In vista di questo appuntamento, la Cgil vuole riaccendere i riflettori sul Sud , riportando la questione all'attenzione nazionale. Al riguardo, abbiamo raccolto le opinioni dei segretari generali delle regioni del Mezzogiorno, le loro riflessioni e le proposte per costruire uno sviluppo vero.
Sandro Del Fattore
Segretario generale Cgil Abruzzo e Cgil Molise
Dai recenti dati della Svimez emerge un Abruzzo con seri problemi. La regione è il fanalino di coda del Centro-Sud, con un Pil che nel 2016 segna un meno 0,2 per cento, la produzione industriale che subisce una consistente contrazione, registrando un meno 2,2 per cento, e l’agricoltura in forte calo. A reggere sono solo le imprese che producono per i mercati internazionali e che sono concentrate prevalentemente nei settori della farmaceutica e dell’automotive.
Il grosso del tessuto produttivo regionale, composto da piccole e medie imprese, vive una situazione di grande difficoltà. Sono imprese rivolte prevalentemente al mercato interno e che hanno risentito (e risentono) della contrazione della domanda interna che da anni caratterizza la situazione economica del nostro paese. È del tutto evidente, infatti, che la riduzione della domanda interna, della spesa e degli investimenti pubblici ha colpito prevalentemente le regioni del Mezzogiorno.
Numerose nella regione le vertenze in corso, che riguardano anche imprese importanti (da Brioni a Honeywell, solo per citarne alcune). Gli strumenti di contrasto alle diverse crisi produttive (aree di crisi complesse, aree di crisi semplice) stentano a decollare e, comunque, gli eventuali interventi di rilancio produttivo non coincidono con la durata e la copertura degli ammortizzatori sociali “riformati” con il Jobs Act. Il rischio è la perdita di numerosi posti di lavoro.
Le dinamiche dell’occupazione e del mercato del lavoro riflettono, in forme più gravi e accentuate, le dinamiche più generali: crollano i contratti di lavoro a tempo indeterminato, crescono quelli a termine e, quindi, l’occupazione precaria. Come se ciò non bastasse, il terremoto ha dato un ulteriore colpo a una situazione già difficile. Sono state colpite una parte della provincia dell’Aquila e una parte consistente della provincia di Teramo. Si tratta prevalentemente di piccoli comuni, di aree interne collinari e di montagna, che erano già a rischio di spopolamento prima del sisma.
Stiamo parlando di aree interne con grandi problemi legati a una difficilissima mobilità, carenti di servizi e attività produttive. E da questo punto di vista è particolarmente grave la scelta che la giunta regionale si appresta a compiere sul trasporto pubblico locale. Una scelta che comporta un indebolimento dell’azienda unica e la prospettiva di una futura privatizzazione, con evidenti ricadute negative sui livelli occupazionali e sui servizi destinati alle aree interne.
L’iniziativa unitaria del sindacato in regione ha prodotto due strumenti importanti: il Patto per il lavoro e lo sviluppo, per una programmazione integrata delle risorse comunitarie relative alla programmazione 2014-2020, e la Carta di Pescara, tutta orientata a nuove politiche industriali che fanno della ricerca e dell’innovazione il loro requisito principale. Strumenti importanti, che stentano però a decollare per le inadempienze e i ritardi dell’amministrazione regionale. Per questo stiamo lavorando unitariamente alla preparazione di una nuova fase di iniziativa e mobilitazione su scala regionale.
Diversamente dall’Abruzzo, il Molise non ha registrato nel 2016 – secondo i dati della Svimez – la flessione del Pil. Ciò non rappresenta tuttavia un’inversione di tendenza, che si presenta ancora assai difficile. La Regione infatti continua a perdere parti importanti del suo già fragile tessuto produttivo. Hanno chiuso i battenti, in pochi anni, aziende storiche: l’Ittierre, azienda tessile che negli anni passati aveva operato per grandi marchi nel settore della moda; lo Zuccherificio, che aveva contribuito a dare impulso a tutta l’economia del Basso Molise; la Gam, che versa da anni in una situazione di crisi e che oggi si trova a vivere una difficile quanto incerta possibilità di rilancio.
La stessa storica area industriale dell’Alto Molise, dove sono localizzate piccole e medie aziende anche del metalmeccanico, vive da tempo una condizione di grave difficoltà. L’area di crisi complessa che insiste su quel territorio stenta a decollare. Molti lavoratori e lavoratrici hanno già esaurito gli ammortizzatori sociali; tanti altri, a partire dalla Gam, rischiano di esaurirli nei prossimi mesi. Nel frattempo, crollano i contratti a tempo indeterminato e crescono quelli a termine e precari. Il sistema di welfare regionale è assai fragile e le scelte della giunta sulla riorganizzazione del servizio sanitario rischiano di smantellare le strutture pubbliche a vantaggio del privato convenzionato.
Anche il Molise vive l’emergenza delle aree interne: spopolamento, tanti giovani che abbandonano la loro terra, carenza di servizi, difficoltà negli spostamenti, problemi di dissesto idrogeologico. La giunta regionale non ha mai risposto adeguatamente alla complessità dei problemi che il Molise presenta, per questo stiamo lavorando per ottobre a una grande iniziativa che coinvolgerà tanti sindaci, associazioni, dipartimenti dell’Università molisana, nella quale presenteremo la nostra piattaforma sul lavoro e lo sviluppo, da cui prenderanno corpo vertenze e mobilitazioni unitarie.
Ci sono infine due grandi questioni che riguardano sia l’Abruzzo che il Molise, come del resto tutte le altre regioni del Mezzogiorno. Noi ci siamo battuti per una corretta programmazione dei fondi comunitari. Emerge però un grande problema. Negli ultimi anni sono state sottratte alle Regioni del Mezzogiorno le risorse ordinarie, in particolare quelle in conto capitale, decisive per gli investimenti delle infrastrutture, nella formazione, nella ricerca, nelle politiche industriali.
È noto che le risorse comunitarie funzionano al meglio se si integrano con quelle ordinarie. Se, come sta avvenendo da anni, diventano invece sostitutive, si riducono molto i loro effetti sul territorio. Di qui la necessità di battersi, pena la definitiva marginalità di aree fondamentali per lo sviluppo del Paese, per riaprire il flusso delle risorse ordinarie verso il Mezzogiorno.
La seconda questione riguarda i criteri di accesso alle risorse destinate al sistema universitario, che stanno penalizzando le università del Centro-Sud. Si stanno favorendo poche “eccellenze” e si penalizza l’intero sistema universitario, in particolare del Mezzogiorno. Se non si inverte questa tendenza, non solo tanti giovani continueranno a emigrare, ma sarà sempre più difficile promuovere per il Mezzogiorno uno sviluppo di qualità e si approfondiranno le differenze tra i diversi territori del Paese.
Giuseppe Spadaro
Segretario generale Cgil Campania
La Campania negli ultimi anni ha affrontato (e sta ancora affrontando) sfide difficilissime. La congiuntura negativa, disastrosa in quasi tutta Europa, e in Italia in particolare, si è innescata su un tessuto produttivo, economico, sociale e politico già fortemente compromesso. La crisi di rappresentanza politica e sociale e la forte presenza della criminalità organizzata, hanno di fatto determinato per anni gestioni commissariali di tanti organismi di partecipazione, di quelli decisionali, di tanti Comuni e Asl, lasciando nel limbo gran parte dei provvedimenti da attuare e, peggio, bloccando una visione strategica di sviluppo che solo la responsabilità politica può perseguire.
L'effetto più eclatante e purtroppo il più devastante lo abbiamo sulla gestione del diritto alla salute, ai servizi e alla sicurezza dei cittadini, specie i più deboli, i malati, gli anziani e i nuovi cittadini. Anni di commissariamento, tuttora in atto, di gestioni scellerate, di scelte mai fatte o portate a compimento, regalano ai cittadini campani alcuni drammatici record, tre anni di vita in meno rispetto ad altre regioni e il dato allarmante relativo alle morti di parto: su 50 casi di donne mediamente ogni anno a livello nazionale, 13 sono della Campania, contro le 5 della Toscana.
In generale, i risultati sono inesorabilmente sotto gli occhi di tutti: i dati e l’esperienza quotidiana ci consegnano una Campania profondamente trasformata, mutilata nella sua capacità produttiva, impoverita e pesantemente colpita della possibilità di avere un lavoro stabile e dignitoso. Il rischio di povertà della popolazione è già oltre il 46% e rischia di superare velocemente il 50% se non si danno risposte concrete alle 200 mila persone che nei prossimi mesi perderanno il lavoro e che non potranno fruire di alcuna forma di sostegno.
Non solo. L’Italia secondo l’Ocse è all’ottavo posto nel ranking dei Paesi di emigrazione, solo dal Sud negli ultimi 10 anni sono partiti circa 400 mila italiani verso il Nord e verso il resto del mondo: di questi, 160 mila sono campani, quasi sempre giovani, spesso altamente specializzati, comunque sempre formati. Come arginare questa vera e propria emorragia di cervelli e di braccia?
Il sindacato ha in proposito diverse proposte da confrontare con la Regione, a cominciare da quella per i circa 20 mila giovani precari che già, a vario titolo, lavorano negli uffici pubblici e che possono essere determinanti per ammodernare il nostro apparato burocratico. Con la Giunta abbiamo unitariamente firmato un buon protocollo di lavoro che dovrebbe affrontare tante delle questioni poste. Notiamo da parte del governo della regione sicura disponibilità, ma quello che ricerchiamo è veloce concretezza, maggiore coraggio contro le incrostazioni di potere, risorse adeguate.
E a proposito di risorse, assai positiva potrebbe essere la possibilità, attraverso il finanziamento dei vari fondi di sviluppo, di avere disponibilità certe per circa 7 miliardi di euro sulla programmazione 2014-2020, anche se siamo già a fine 2017. Senza contare che sono ancora disponibili fondi regionali relativi a contratti di sviluppo nei settori del turismo, dell’alimentare, dell’aerospazio, del legno-carta e dell’automotive, per più di 1,7 miliardi di euro, tra investimenti diretti e agevolazioni.
La verità è che la Campania è ancora una regione manifatturiera: accanto alle eccellenze che danno prospettive, ma a basso impiego di personale, persiste un apparato produttivo poco permeato da Industria 4.0 e spesso sotto ricatto dalle scelte dei grandi gruppi multinazionali. Quasi superfluo soffermarsi sui comparti del turismo, della cultura e dei beni artistici, e sulla filiera agroalimentare, che secondo Svimez rappresentano il traino per la ripresa che comincia a intravedersi: settori preziosi, unici, ma delicati, nessuno li potrà “spostare”, ma bisogna connetterli e valorizzarli.
A rendere le cose ancora più complicate, la piaga dell’illegalità diffusa, della criminalità camorrista, trovano fertile terreno in una parte della società devastata da anni di incuria e malagestione politica. Per provare a invertire la marcia serve una rivoluzione culturale, che abbandoni il vittimismo ancestrale e metta insieme tutti i cittadini di buona volontà. Il sindacato confederale dovrà essere parte fondamentale di questo processo. Dovremo avere il coraggio di stare in campo con meno certezze e più entusiasmo, la nostra storia ce lo permette. Anzi, ce lo impone.
Angelo Summa
Segretario generale Cgil Basilicata
Il Sud e la Basilicata possono uscire dalla crisi se si assume una nuova strategia di investimenti. Occorre innanzitutto partire dalla rimodulazione dei patti sottoscritti tra Regioni e governi, le cui risorse non solo non stanno dentro una più ampia strategia, ma rischiano di non produrre alcun effetto di crescita e sviluppo. Continuiamo a pensare, cosi come facemmo nel 2015 quando lanciammo a Potenza Laboratorio Sud (alla presenza di tutti i presidenti delle Regioni del Mezzogiorno), che serve una strategia sovra regionale e una visione di insieme.
In questo particolare momento storico-politico e sociale, in cui la rappresentazione populista che governa alcune e importanti Regioni del Nord rischia di fare ancor di più scivolare il Sud in una condizione di marginalità, senza la voce del Mezzogiorno e delle sue classi dirigenti si corre il pericolo non solo di una frattura nazionale sui temi unificanti del nostro Paese (dalla sanità all’istruzione, dalla sicurezza alla mobilità), ma la derubricazione del Sud e del suo peso specifico nelle scelte programmatiche ed economiche per l’Italia.
La Basilicata fa fatica a inserirsi in una cornice programmatoria complessiva, all’interno di una più ampia visione del Mezzogiorno e, viste le recenti iniziative relative alle Zes (Zone economiche speciali), del Mediterraneo. Bisogna innanzitutto considerare che la particolare situazione economica degli ultimi dieci anni ha contribuito a plasmare molta parte delle sue componenti produttive e del suo profilo economico-sociale. Molta parte dell’export lucano è attribuibile al settore dell’automotive (più del 75%), ed è sicuramente un fatto positivo, ma a questo non si aggancia una strategia di rilancio complessiva del manifatturiero e soprattutto non si vede una visione compositiva e organica dei due maggiori poli industriali (Fca e realtà estrattiva della Val d’Agri).
Sul punto molto ci sarebbe da fare, con riferimento al settore di collegamento per eccellenza in una terra interessata dallo sfruttamento di risorse naturali: la messa in sicurezza del territorio, la previsione di interventi di edilizia sostenibile e bioedilizia, di case sicure, di costruzioni moderne e a basso impatto energetico. Ma poi c’è da puntare sul raccordo e sull’integrazione dei due grandi poli industriali presenti in regione (forse gli unici con determinate caratteristiche e dimensioni): appunto, l’energia e l’automotive.
A gennaio di quest’anno il governo ha dato il via libera alla Direttiva europea 2014/94, cosiddetta Dafi, dove si definisce il quadro strategico nazionale per le infrastrutture e fornitura per lo sviluppo del mercato dei carburanti alternativi. È necessario, perciò, pensare a una strategia di connessione su questa lunghezza d’onda e sfruttare da un lato le potenzialità del settore energetico della Val d’Agri e, dall’altro, il comparto della produzione di autoveicoli. E contestualmente imprimere una direzione anche al campus di ricerca della Fca.
Ha senso migliorare il rapporto uomo/natura/innovazione in una regione che presenta l’80% del suo territorio interessato da superficie boschiva. Ha senso orientare investimenti verso un miglioramento del sistema dei trasporti, utilizzando fonti energetiche alternative, migliorando l’efficienza dei veicoli e riducendo le emissioni. Provando a buttare il cuore oltre l’ostacolo e provando a fare tesoro di quello che c’è, in sostanza evitando di continuare a costruire, ma lanciando un grande piano di investimenti in ristrutturazioni.
Infine, sarebbe utile aprire una riflessione seria sulla collocazione strategica, sugli sviluppi inerenti i settori della logistica e dei trasporti, soprattutto con riferimento alla individuazione delle Zes e nel ripristino di una percorribilità adeguata sull’asse Napoli-Salerno-Potenza-Bari, Potenza, Melfi, Foggia e la Matera Ferrandina. Questo anche per scongiurare il rischio di un graduale logoramento della funzione economica e nella traiettoria complessiva di sviluppo della regione e del suo capoluogo di regione. A maggior ragione dopo la straordinaria opportunità presentatasi con Matera 2019, opportunità che al tempo stesso non può comportare una divaricazione nelle linee di sviluppo di un territorio già di per sé in crisi di tenuta sociale, ma che deve invece essere motivo di coesione e raccordo istituzionale, sociale ed economico.
Pino Gesmundo
Segretario generale Cgil Puglia
Ventimila giovani tra i 20 e i 30 anni hanno lasciato la Puglia dal 2008 a oggi. Cinquantamila universitari pugliesi si stanno formando in università di regioni del Centro-Nord e probabilmente spenderanno lì le conoscenze acquisite. Lo denuncia da tempo lo Svimez, se non si investono risorse ingenti per la creazione di nuova occupazione soprattutto per i giovani, il destino della nostra regione e del Sud è quello di una desertificazione sociale che renderà vano ogni sforzo che si produce per invertire il segno della crisi e creare occasione di sviluppo e lavoro.
Dopo anni di trasferimenti ridotti e tagli alla spesa per il Mezzogiorno, l’ultimo Decreto Sud è più uno spot che un vero piano di intervento, con risorse spalmate in un lungo periodo e stanziamenti reali che potranno incidere ben poco per colmare il divario con il resto del Paese, per esempio in termini di infrastrutture economiche e sociali. E mentre tutto questo accade due grandi e ricche regioni del Nord propongono referendum con aspirazioni autonomiste.
Il Mezzogiorno è scomparso dall’orizzonte di riflessione del mondo delle imprese, concentrate su incentivi e singole misure di decontribuzione – dagli scarsi effetti in termini di creazione di lavoro – e senza un’analisi di contesto, una proposta organica circa investimenti pubblici e necessità di innovazione del sistema produttivo. Per fortuna, viene da dire, c’è la Cgil, il nostro sindacato, che sta dedicando un impegno straordinario confermato prima dal progetto Laboratorio Sud e ora dall’Assemblea generale del 14-15 settembre sul Mezzogiorno.
C’è un nodo da troppo tempo evaso almeno nel dibattito pubblico, tutto incentrato da un ventennio a questa parte su politiche di attacco ai diritti del lavoro e precarizzazione, strumenti che hanno determinato impoverimento e sfruttamento, non crescita dell’occupazione. Questo nodo è la qualità del fare impresa nel nostro Paese e soprattutto al Sud. La stagione della programmazione negoziata, che abbiamo sostenuto perché serviva a dare risposte straordinarie di industrializzazione in aree depresse, ha in alcuni casi visto solo razzie di finanziamenti pubblici, in altri casi c’è chi ha sbattuto sul vento della crisi, mentre chi ha investito in progetti innovativi e di qualità è invece riuscito a stare sul mercato.
Ecco, dobbiamo spazzare via l’immagine di un Sud piagnone: in Puglia vi sono eccellenze europee dell’aerospazio, della meccatronica, della farmaceutica, che hanno investito in ricerca e creato lavoro qualificato. Di contro, ci sono ancora capitani di ventura che pensano di poter competere sul mercato globale incidendo su diritti e salari. Sono fuori dalla storia, ma producono dumping a danno di imprese che rispettano i contratti e non creano condizioni di ricchezza diffusa.
Il caso più eclatante in Puglia è quello delle imprese dell’agroalimentare, che vedono crescere export e profitti, ma stanno combattendo una battaglia vergognosa contro norme di civiltà come quelle previste nella legge di contrasto al caporalato. Perché in Puglia di lavoro agricolo si continua a morire, pochi giorni fa un altro caso nel Tarantino, un’altra donna deceduta mentre era nelle campagne. Tutto questo macchia la nostra regione e non è più sostenibile. Lo Stato deve far sentire la sua presenza in questa partita.
Così come nel contrasto alla criminalità organizzata: nei nostri territori sempre più forte, sempre più dentro le dinamiche economiche e politiche. Questi sono i motivi che tengono lontani gli investimenti, non certo la richiesta di rispettare un contratto di lavoro. Da questo orizzonte di precariato a vita scappano i nostri giovani, che più si qualificano più hanno difficoltà a spendere le proprie conoscenze, per il ritardo che vive il sistema imprenditoriale, che sempre più dovrebbe connettersi al mondo delle università e della ricerca.
Un Sud penalizzato anche dalla totale assenza di politiche industriali nazionali. Confindustria è arrivata a definire “spettacolare” la crescita dell’industria al Sud. In Puglia dall’inizio dell’anno sono stati aperti 35 tavoli di crisi presso la task force per l’occupazione della Regione, tutti inerenti il settore manifatturiero e quasi tutte grandi aziende. In Puglia sono aperte vertenze di valenza nazionale come quella dell’Ilva. Le ore di cassa integrazione autorizzate nei primi sei mesi del 2017 per l’industria sono state 22 milioni, con un aumento di quasi il 50 per cento rispetto allo scorso anno. Certo la realtà pugliese presenta come detto imprese che investono e internazionalizzano, ma questi sono i numeri, altro che crescita spettacolare.
In questo scenario le sole risorse a disposizione sono quelle rivenienti dai fondi strutturali: nella nostra regione stiamo registrando un ritardo grave circa la spesa e la cantierizzazione di opere. Un ritardo che chiama in causa nel caso del Piano di sviluppo rurale lo stesse ente regionale, ma altrettanta lentezza interessa importanti stazioni appaltanti come Acquedotto Pugliese, Anas, ferrovie in concessione, Comuni, tutti destinatari di ingenti finanziamenti per opere che riguardano infrastrutture e messa in sicurezza del territorio, utili anche a creare occupazione. Chiediamo un’accelerazione della spesa consapevoli che come partenariato sociale ai tavoli siamo riusciti a indirizzare le risorse verso investimenti di qualità, innovativi, legati nel caso delle imprese alla creazione di occupazione aggiuntiva. Perché è la qualità che determina gli effetti e questa partita dei fondi strutturali, forse l’ultima di questa portata, non possiamo perderla.
Come Cgil abbiamo dato un nostro contributo programmatico, aperto a istituzioni, forze politiche e sociali. Già da gennaio con la presenza del segretario generale Susana Camusso a Taranto, abbiamo lanciato una nostra piattaforma dentro la cornice di Laboratorio Sud, che insiste su tre parole: lavoro, ambiente, sviluppo. Un impegno frutto di incontri nei territori per fare sintesi delle priorità e anche delle diversità che sono presenti nelle province pugliesi. Da questa piattaforma stanno nascendo accordi territoriali importanti, circa proprio l’utilizzo delle risorse comunitarie, per il contrasto al lavoro nero, per politiche di welfare e della salute più vicine ai cittadini.
In questo scenario stiamo richiamando tutti gli attori sociali e politici a un’azione sinergica, perché qui come a livello nazionale chi pensa si possa procedere in ordine sparso, senza un quadro di priorità e interventi definito, rischia soltanto di condannare la Puglia e il Sud a un crinale di povertà e declino inarrestabile.
Angelo Sposato
Segretario generale Cgil Calabria
Quest’anno le Giornate del lavoro di Lecce saranno precedute dall’Assemblea generale della Cgil sui temi del Mezzogiorno. Un’importante occasione per rimettere al centro della discussione le politiche nazionali per il Sud e le scelte di un governo che dovrebbe puntare di più sulla crescita, attraverso investimenti pubblici e privati, meno su bonus e decontribuzioni a pioggia, che una volta terminati producono bassa occupazione, precariato e lavoro nero.
I dati sul Mezzogiorno degli ultimi rapporti Svimez e Istat configurano l’ultimo ventennio come il periodo più lungo di stagnazione a crescita zero, producendo nel Sud e in modo particolare in Calabria un clima generale di sfiducia e rassegnazione. Gli indicatori economici e sociali ci consegnano una regione al primo posto per disoccupazione, soprattutto giovanile e femminile, all’ultimo posto in Italia come capacità di Pil procapite, e terzultima in Europa. L’aumento della povertà assoluta e relativa è preoccupante.
Nell’ultimo triennio, la chiusura dei fondi strutturali 2007-2013 con progettazione sponda, di filiera e a pioggia, ha prodotto un trend positivo in alcuni settori come il manifatturiero e l’agricoltura, ma già da quest’anno abbiamo riscontrato negli stessi settori un calo rispettivamente del 30% e dell’8,9%. Nel turismo, le condizioni internazionali, geopolitiche, la crisi del Mediterraneo, hanno incentivato le presenze nella nostra regione, che non hanno però prodotto misure strutturali e occupazione. Nel settore del turismo stagionale, quest’anno, due lavoratori su tre in Calabria hanno lavorato in nero e senza tutele contrattuali, il lavoro sommerso nei diversi settori è aumentato, così come l’evasione fiscale, la corruzione, la disoccupazione giovanile e femminile.
Il peso dell’economia criminale, dell’azione della ’ndrangheta sul tessuto economico e sociale, rappresenta il cancro che sta divorando il futuro di intere generazioni. La ’ndrangheta di seconda generazione è diventata essa stessa “classe dirigente”, condizionando il funzionamento di enti e istituzioni. Per fronteggiare queste emergenze, sarebbe stata necessaria una svolta nelle politiche nazionali e regionali verso il Sud e la Calabria, facendo diventare il regionalismo motore per il rinnovamento e la crescita economica e sociale.
La Calabria conta 405 Comuni, di cui oltre 300 sotto i 3 mila abitanti. Molti di questi, allocati in aree interne, sono assoggettati a un processo graduale di spopolamento e di una conseguente decrescita demografica. La Calabria è una regione vecchia, necessita di riforme, a partire dalla geografia istituzionale, dalle partecipate regionali, dagli enti strumentali in parte commissariati. A fronte di una programmazione comunitaria inefficace dal 2000-2013, il nuovo governo regionale, in carica dal 2014, poteva invertire una tendenza con la nuova programmazione. Così non è stato.
A nulla sono valse le richieste anche nei diversi comitati di sorveglianza Por, che abbiamo fatto come Cgil, di un’inversione di tendenza della spesa per evitare interventi parcellizzati, in quanto non adatti a garantire qualità, sviluppo, lavoro, a impedire la tracciabilità della spesa dei soggetti beneficiari, cosa richiesta anche dalla Commissione europea. Dopo il Patto per la Calabria, il masterplan, il patto per il Sud, i contratti di sviluppo, a forte ritardo di esercizio, come sindacato unitario abbiamo proposto nelle diverse cabine di regia tenute nei tavoli con la giunta, un piano di sviluppo per elaborare un Piano regionale per il lavoro, partendo dalla Zes (Zona economica speciale) di Gioia Tauro, dalla logistica e mobilità, dall’assetto e dalla difesa del suolo e manutenzione del territorio, dalle filiere agroalimentari e produttive, dai beni archeologici, culturali e ambientali, al turismo, con il coinvolgimento delle università e del mondo della ricerca, per incentivare nuove start up e i giovani che sono in fuga dalla Calabria.
Nulla di tutto ciò. Le cabine di regia sono state per lo più la rassegna ripetuta di elenchi di numeri, di percentuali, che a oggi hanno avuto solo ed esclusivamente il valore della conoscenza teorica, ma che non hanno prodotto alcuna azione significativa e di esercizio. Con rammarico, constatiamo che ci troviamo di fronte al livello più alto di crisi del regionalismo calabrese, con interi settori commissariati, salute, agricoltura, turismo, attività produttive, e un Consiglio regionale svilito che si riunisce solo 6 volte in un anno, impermeabile e insensibile all’emergenza sociale.
Di fronte a questo stato di cose avvieremo iniziative, assemblee e manifestazioni di carattere territoriale e regionale per ricercare alleanze unitarie e contribuire a costruire momenti di confronto con quella Calabria che non è ancora rassegnata, con i giovani, nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle piazze, per ridare centralità allo sviluppo, al lavoro, la legalità, la salute e il territorio.
Michele Pagliaro
Segretario generale Cgil Sicilia
Il fatto che quest’anno le Giornate del lavoro della Cgil saranno precedute dalla discussione dell’Assemblea generale sui temi del Mezzogiorno è di grande importanza. È un segnale inequivocabile dell’attenzione, fuori da ritualità, che la nostra confederazione attribuisce ai temi dello sviluppo del Sud, che si conferma oggi come il territorio più fragile del Paese, con tutte le conseguenze del caso in termini di lavoro, di diritti, di benessere sociale.
Negli anni della crisi in Sicilia si sono persi posti di lavoro (128 mila), l’apparato produttivo è andato in pezzi, il lavoro ha perduto sempre più valore. I dati sulla povertà sono allarmanti e nemmeno le ultime rilevazioni Istat rincuorano. Tutt’altro: la crescita occupazionale riguarda la Sicilia in misura molto marginale: a oggi, il settore della ristorazione e degli alberghi è l’unico a crescere, ma di solo 4 mila unità rispetto al 2008, mentre per tutti gli altri il saldo resta pesantemente negativo.
In sostanza, la fotografia pre-autunnale che ci è stata presentata in queste ultime settimane evidenzia una crescita che ha escluso la Sicilia, e della quale, anche nel resto del Paese, hanno beneficiato soprattutto gli over 50, dando puntuale conferma dell’inefficacia delle misure introdotte per quanto riguarda il lavoro dei giovani, che continuano a pagare il prezzo più alto della crisi economica.
A fronte di tutto questo occorre una valutazione ponderata delle misure già attivate e di quelle da attivare per avere una reale inversione di tendenza. Il punto cruciale, il nodo della Sicilia, sono le infrastrutture, materiali e immateriali. A esse si ricollegano i temi dell’occupazione, ma anche quelli della qualità della vita. Un grande investimento mediatico c’è stato sui Patti per la Sicilia e su quelli per le aree metropolitane. Partiamo da lì e vediamo cosa non sta funzionando.
Per il Patto per la Sicilia, a fronte di 2 miliardi e 320 milioni da spendere entro il 2018, le somme in bilancio a luglio 2017 risultano pari a 185 milioni e quelle impegnate a 59 milioni, il 2,54%. Le somme pagate ammontano a soli 24 milioni, l’1.03%. È evidente che si sta andando molto a rilento e pensiamo che sia analoga la situazione delle Zes, le Zone economiche speciali istituite con il decreto Mezzogiorno. Noi dobbiamo chiedere che siano subito individuate le anomalie che bloccano i Patti. Occorre sapere se è un problema di risorse o se mancano i progetti esecutivi. Altrimenti i Patti rischiano di diventare il solito elenco di buone intenzioni.
Come Cgil dobbiamo poi costruire un’azione capace di dispiegare politiche di sviluppo con una visione d’insieme interregionale. Ci vogliono risposte in termini di infrastrutture immateriali, per garantire diritti di cittadinanza che non possono essere erogati esclusivamente sulla base del “certificato di residenza”. Penso alla sanità. A quest’ultimo riguardo in Sicilia scontiamo un pesante paradosso. I cittadini hanno contribuito al risanamento dei conti: stanno pagando attraverso un’addizionale Irpef tra le più care d’Italia i costi del mutuo trentennale contratto dal governo Crocetta, nel 2015. Ma a fronte di questo, i servizi sanitari restano carenti, i posti letto si riducono, le liste di attesa sono interminabili e lunghissimi di conseguenza i tempi per accedere alle prestazioni, la medicina del territorio è sottodimensionata, i diritti degli utenti della sanità insomma non sono garantiti.
Ritengo che come sindacato dobbiamo confermare i nostri obiettivi di ridare centralità e valore al lavoro, ma anche centralità alla persona sulla scia del ragionamento che sta alla base della straordinaria e valida intuizione della Cgil alla base della Carta dei diritti universali del lavoro. Abbiamo il dovere di continuare a rivendicare con forza una politica di investimenti per il rilancio del Mezzogiorno, non solo fondata su adeguate risorse, ma anche sulla qualità degli interventi. Credo che le politiche dell’una tantum, dei bonus, degli sgravi a pioggia, abbiano mostrato la corda.
Ci vogliono progetti di investimento specifici e mirati a mettere in moto la macchina dello sviluppo. Gli interventi tampone, specie quelli rivolti ai giovani, hanno mostrato tutta la loro inefficacia, assumendo sempre di più il sapore delle mance. Non è di ciò che abbiamo bisogno al Sud. Abbiamo bisogno di politiche coerenti per il lavoro e lo sviluppo e del pieno smantellamento in sede locale di quel sistema di corruttele, di prebende, che ha contribuito all’affermazione di un modello di sviluppo sbagliato e perdente.
Nel contempo, ambiti come quello della lotta alla mafia attraverso un efficace e virtuoso riutilizzo dei beni sequestrati e confiscati non possono più aspettare, serve tornare a rivendicare le ragioni di “Io riattivo il lavoro”, perché lo Stato non può e non deve fallire. Tutto ciò va ribadito soprattutto ora che in Sicilia si è in piena fase di campagna elettorale e che cominceranno i soliti stalli, il solito accavallarsi di promesse, in una regione che finora non è riuscita a fare grandi passi avanti e per la quale si impone un deciso cambio di rotta.
Michele Carrus
Segretario generale Cgil Sardegna
La Sardegna, che per tanti versi assomiglia alle altre regioni del Mezzogiorno per il suo ritardo di sviluppo e il bisogno di colmarlo con apposite politiche fattoriali, è resa unica dalla sua condizione di insularità: la sua piena integrazione nella comunità nazionale attraverso equilibrati processi di sviluppo, non può partire che dal riconoscimento effettivo di questa condizione penalizzante, con misure e interventi specifici e perequativi, capaci di superare l’impatto negativo di regole uniformi che avvantaggiano solo le realtà più forti d’Italia e d’Europa.
Innanzitutto, in un territorio così vasto e sotto-popolato (68 abitanti per chilometro quadrato), se si vuole combatterne lo spopolamento, risulta impossibile applicare senza eccezioni i parametri standard dei servizi pubblici universali (scuola, sanità, tpl, welfare e servizi locali), mentre diventano prioritarie le connessioni: un sistema intermodale di trasporto connesso con il resto d’Europa che realizzi una vera continuità territoriale per le persone e per le merci; la disponibilità di energia per i bisogni civili e industriali come nel resto del Paese (in Sardegna manca ancora il metano); la dotazione di reti digitali di ultima generazione.
Ma altrettanto urgenti sono anche gli indirizzi di politica industriale, che per un sistema debole e periferico devono concentrarsi sulle produzioni tecnologicamente e scientificamente più avanzate, agganciando la locomotiva e non i vagoni di coda del treno dello sviluppo, quelle a più alto valore aggiunto e che soffrono meno dell’insularità, basate sul sapere e sulle competenze, cioè sulla valorizzazione dell’istruzione e della formazione, dell’università e della ricerca: aerospazio, cantieristica, chimica verde, biomedicina, nuove energie, Ict, meccanica fine, blue economy e riutilizzo dei materiali. Sono ambiti nei quali bisogna impegnare, con appositi accordi e strumenti attrattivi, anzitutto le grandi aziende partecipate, che hanno impianti o interessi nell’isola, a sviluppare programmi d’investimento e costruire filiere innovative, come Leonardo, Fincantieri e soprattutto Eni, che deve ora completare gli investimenti avviati a Porto Torres, chiudendo l’intero ciclo industriale delle bioplastiche, fermo a metà strada.
Il territorio, l’ambiente, vanno preservati e valorizzati con usi sostenibili: nella loro attrattività risiede infatti la possibilità di sviluppare il turismo oltre il segmento marino-balneare e verso la fruizione dei beni culturali di una storia plurimillenaria, di comunità locali accoglienti e compendi paesaggistici irripetibili. Nelle bonifiche dei troppi siti compromessi e nella sistemazione idraulico-forestale – contro la progressiva desertificazione e per prevenire i frequenti disastri meteorologici – si possono trovare stabile e qualificata occupazione e nuove attività. Così come nel rilancio di una moderna economia agricola, che trasformi le produzioni per soddisfare un fabbisogno alimentare che oggi – malgrado le enormi estensioni utilizzabili della Sardegna rurale – dipende per quattro quinti da importazioni extraregionali.
Assieme a tutto ciò, è necessario che si realizzi una ripresa di cospicui investimenti pubblici, che la Regione ha anche incominciato a fare con la programmazione integrata delle risorse proprie, nazionali e comunitarie, evitando sovrapposizioni e dispersioni; ma ciò richiede la certezza e la disponibilità di risorse spendibili – mentre il Patto per il Sud libera appena il 10% degli stanziamenti nel suo primo biennio –, oltre al dialogo sociale e alla condivisione delle scelte.
Per la Sardegna, come per tutto il Mezzogiorno, si tratta di superare le logiche dell’intervento straordinario e assumere la linea della buona programmazione condivisa delle risorse proprie e di quelle aggiuntive, europee e nazionali, che devono essere tali. I vecchi Fas erano destinati, non a caso, per l’85% alle aree deboli, affinché colmassero il loro divario di sviluppo; poi si è deciso altrimenti e oggi la spesa pubblica al Sud è uguale alla media nazionale soltanto perché si è sostituito l’intervento ordinario con i fondi europei, che dovrebbero essere aggiuntivi: è questa stortura che va anzitutto superata. Il governo invece preferisce la politica degli sgravi, che a parità di impegni porta minori effetti moltiplicatori sulla crescita del reddito e del Pil: l’ultima trovata, la Zes (Zona economica speciale), appare strutturata per drenare risorse dedicate a investimenti dal Fsc (Fondo per lo sviluppo la coesione) e favorire automatismi fiscali a vantaggio delle imprese, anche senza particolari vincoli selettivi e senza una governance condivisa.
Tutto questo postula una pubblica amministrazione efficiente, sburocratizzata, che eroghi servizi efficaci e valorizzi le competenze del proprio personale, capace di orientare le scelte di investimento anche dei privati, piuttosto che frapporvi ostacoli. Un’amministrazione che abbia competenze definite e distribuite tra i suoi enti in modo chiaro e moderno, secondo principi di adeguatezza e sussidiarietà, non pasticciato com’è adesso. E il servizio più efficace deve essere quello delle politiche del lavoro e per l’occupazione, falcidiate dagli ultimi governi, che hanno sprecato una mole immensa di risorse in bonus e sgravi fiscali alle imprese senza adeguati contrappesi, con il risultato che il malessere sociale continua ad attanagliare milioni di persone nel Mezzogiorno, con i cervelli migliori, le donne e i giovani che scappano via, impoverendo ancora la sua principale riserva per il futuro: il capitale umano.