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Il testo è la sintesi dell’articolo pubblicato nella sezione Tema del n. 4 2017 della Rivista delle Politiche Sociali. Gli abbonati possono leggerlo qui in versione integrale. Questo è invece il link alla rubrica che Rassegna dedica alla stessa Rivista
I fattori che spingono a emigrare dall’Italia sono molteplici e differiscono per i diversi protagonisti dell’emigrazione che colpisce oggi il nostro Paese. Sicuramente il principale fattore di spinta, comune a tutti (giovani e meno giovani, meridionali o settentrionali, altamente scolarizzati o no), è rappresentato dalla grave crisi produttiva e occupazionale degli anni scorsi, che ha attivato fenomeni e processi che sono tuttora in atto.
Se si parla di Mezzogiorno bisogna tener conto del fatto che le principali destinazioni non sono quelle estere (anche se la componente di emigrazione verso l’estero è cresciuta negli ultimi anni) e che, benché si scelga di emigrare per molti diversi motivi, per la stragrande maggioranza degli emigranti l’elemento unificante resta il peggioramento della situazione del mercato a livello locale. Questa migrazione è proseguita anche quando si è passati dalla crisi alla tenue ripresa che si registra oggi, in particolare nel Sud, anche se nel Meridione siamo ancora lontani dal raggiungere i livelli pre-crisi per quel che riguarda i principali indicatori del mercato del lavoro e soprattutto livelli e qualità dell’occupazione.
Tutto ciò fa pensare davvero che ci troviamo di fronte a un nuovo ciclo dell’emigrazione italiana, che per il Mezzogiorno si inserisce in un processo di radicale modifica della struttura demografica, un basso tasso di natalità non compensato – come nel Nord – da un parallelo flusso di immigrati. Il Mezzogiorno torna così ad acquistare un ruolo di area fornitrice di manodopera necessaria per lo sviluppo delle altre regioni italiane ed europee, allo stesso modo in cui lo aveva svolto mezzo secolo addietro, all’epoca delle grandi migrazioni intereuropee trainate dallo sviluppo industriale fordista.
Ma con due aggravanti: gli emigrati meridionali si inseriscono in mercati del lavoro dominati dalla precarietà e al contempo il Mezzogiorno non è più un’area sovrappopolata ove l’alleggerimento demografico poteva essere positivo, ma un’area ormai in grave crisi demografica, che l’emigrazione rischia di spogliare definitivamente delle potenziali risorse di una ripresa. Tra 2015 e 2016 quasi 100 mila meridionali se ne sono andati dal Sud e nel complesso dei primi 15 anni del nuovo secolo la perdita netta dell’area assomma a oltre 716 mila unità, in maggioranza giovani tra i 15 e i 34 anni, quasi un terzo dei quali con titolo di studio pari almeno alla laurea.
Si tratta di un esodo giovanile che ha gravissimi effetti strutturali, tanto a livello demografico che di capitale umano, e può condurre a un depauperamento permanente delle risorse umane più fresche, educate e valide, con effetti devastanti per la società e l’economia meridionali. Questo quadro è aggravato dal progressivo calo della popolazione residente, determinato tanto dai fenomeni di migrazione verso il Centro-Nord e l’estero, quanto dalla scarsa capacità attrattiva di immigrazione straniera, quanto infine da bassi tassi di fecondità.
Secondo le previsioni Istat, nel periodo 2016-2065 si registrerà una contrazione dei residenti nell’Italia meridionale di 5,3 milioni di abitanti. Un vero tsunami demografico, come già notato dal Rapporto Svimez sull’Economia del Mezzogiorno 2011, che con la riduzione della presenza al Sud di oltre due milioni di giovani al disotto di 30 anni, darebbe un colpo durissimo al futuro stesso del Mezzogiorno, trasformato nell’area del Paese ove si concentra la quota più anziana e meno fertile della popolazione e colpito proprio nel capitale umano, che è il vero patrimonio di quelle regioni.
Un’ultima importante osservazione si riferisce al fatto che la componente giovanile dell’emigrazione, ancora una volta diversamente che nel secolo passato, non è oggi fonte di ricchezza compensativa per il Mezzogiorno, sotto la tradizionale forma delle rimesse degli emigrati. Al contrario, a causa dei livelli retributivi per lo più bassi che normalmente riesce a spuntare nelle regioni di arrivo, essa costituisce un costo, spesso pesante, per le famiglie, che sono costrette a finanziarla almeno in parte. Si determina così un triplo impoverimento per il Sud: quello demografico, quello delle famiglie e quello della bilancia delle partite correnti.
Stefano Boffo è professore associato presso l’Università di Napoli Federico II; Enrico Pugliese insegna Sociologia del lavoro presso l’Università di Roma La Sapienza