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Il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro dall’esplosione della crisi economica del 2008 a oggi è sotto gli occhi di tutti. E lo è anche l’impatto dirompente che questo sta avendo sulla salute mentale della classe lavoratrice. Occorre quindi rimettere al centro la cosiddetta condizione operaia, un tema tutt’altro che desueto o antico. Basta guardare alle ultime leggi varate dal governo, che riportano diritti e lavoro indietro di decenni: nel Jobs Act, ad esempio, al padrone si dà anche la possibilità di demansionare il lavoratore con problemi di salute fisici o mentali. Naturalmente questo lo si fa per dare al lavoratore l’opportunità di (cito testualmente) “migliorare le proprie condizioni di vita”.
I numeri parlano chiaro. Dal 2008 a oggi la quantità di persone che si è rivolta ai Centri di salute mentale di Modena è aumentata di oltre un terzo. La stragrande maggioranza dei nuovi utenti sono lavoratori dipendenti, travolti da uno dei due opposti effetti che la crisi ingenera: da un lato c’è chi cade in depressione perché in cassa integrazione o licenziato, vedendo crollare la propria esistenza senza alcuna prospettiva per il futuro; dall’altro c’è chi l’impiego non l’ha perso, ma proprio per questo si trova a dover lavorare il doppio. Riguardo quest’ultimo aspetto, va detto chiaramente che l’aumento di ordinativi e produzione che registriamo in questi mesi in qualche settore della metalmeccanica si sta traducendo, a dispetto dei dati falsi millantati dal governo, non in nuove assunzioni, bensì nell’aumento dei ritmi di chi al lavoro c’è già.
Questi dati ci inducono a formulare una prima considerazione. Il concetto teorico dei padri della cosiddetta “psichiatria alternativa” (come Franco Basaglia, Franca Ongaro e Sergio Piro), da essi traslato in ambito psichiatrico dal materialismo storico e dialettico di Marx ed Engels, ci dice che è il sistema nella sua brutalità, nelle aberranti condizioni di esistenza che impone alla classe lavoratrice, la causa di fondo anche dell’insorgere dei problemi legati alla salute mentale. A essere investita da problemi di carattere psicologico oggi non è più solo quella parte di emarginazione che il sistema produce e che fino a qualche tempo fa rinchiudeva in un manicomio, in un Opg o in una “clinica”, bensì l’intera classe lavoratrice, cioè l’asse centrale attorno cui ruota questo sistema.
Questo ci spinge a proporre un paio di riflessioni. La prima è rivolta al personale medico, che sollecitiamo a non affrontare il problema in termini sanitari, medicalizzando il lavoratore che chiede aiuto ai Centri di salute mentale. Perché questo è un rischio concreto, che può verificarsi se non si contestualizza la questione. Basti pensare alla definizione generalmente utilizzata per lo stress lavoro-correlato: una definizione “sanitaria”, che però de-politicizza un problema che, al contrario, è profondamente politico e sociale. Un problema presente da quando esiste la classe lavoratrice, che da allora prende il nome di “alienazione”. Chiamarla in questo modo non significa, ovviamente, che nei casi in cui il personale medico lo ritenga opportuno per la salvaguardia del lavoratore, la questione non si debba affrontare “anche” dal punto di vista sanitario.
La seconda (e più importante) riflessione riguarda il sindacato. In questi anni migliaia di lavoratori, anziché rivolgersi al sindacato per i propri problemi di lavoro, hanno preferito, perché lo ritenevano più efficace, rivolgersi al medico. Come sindacato, dunque, stiamo perdendo credibilità agli occhi di chi lavora. Dobbiamo quindi tornare a essere percepiti come uno strumento efficace dai lavoratori, come lo strumento attraverso il quale il lavoratore si organizza con i propri compagni e lotta assieme a loro per migliorare e cambiare la propria condizione, dentro e fuori il posto di lavoro.
Queste due riflessioni vanno in qualche modo intrecciate, partendo dal presupposto che medici e sindacalisti debbano lavorare in grande sinergia. La proposta che ci sentiamo di avanzare (e che abbiamo lanciato al convegno “A lavorare in fabbrica… si diventa matti”, tenutosi il 23 ottobre scorso a Modena), non solo a livello locale ma anche nazionale, è quello di istituire uno sportello, organizzato dal sindacato con l’intervento del personale medico di riferimento, che riceva e aiuti i lavoratori con problemi psicologici. Un tale strumento ci permetterebbe di contrastare la tendenza delle aziende, sempre più diffusa e preoccupante, di mettere a disposizione del lavoratore i propri psicologi “di fiducia”. Se non contrastiamo questa tendenza, lo “psicologo aziendale” diventerà uno strumento di controllo ancora più deleterio del Jobs Act. Uno sportello, però, che non si limiti a fornire un mero servizio al lavoratore, ma che possa tradursi anche in militanza, ridando coraggio e fiducia ai lavoratori, non solo come individui ma anche come classe.
* responsabile Salute, ambiente e sicurezza Fiom Cgil Modena