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Il suo mercato è in costante crescita e sembra ormai che la stampa 3D abbia colpito definitivamente l’immaginazione collettiva. Ovunque spuntano progetti innovativi e piccole e medie aziende che con questa tecnologia riescono a rilanciarsi sul mercato. La stampa 3D, o fabbricazione additiva, è un processo che permette di creare oggetti solidi, in plastica o metallo, sovrapponendo i vari strati di materiali e fondendoli tra loro, partendo da un progetto realizzato con un software di modellazione 3D. Il materiale più usato è la plastica, ma ormai ci sono studi su qualunque tipo di materiale, dai metalli, ricercatissimi e altamente sofisticati, a quelli organici.
Questa tecnologia non è però prerogativa del nuovo millennio; la prima stampante fu inventata nel 1983 da Charles Hull, un ingegnere che creò una macchina che fissava gli strati di materiali con ultravioletti, la cosiddetta stereolitografia. La prima stampante fu messa in commercio nel 1986 dalla 3D Systems, azienda fondata da Hull stesso; questi primi macchinari, visti gli alti costi, erano accessibili solo alle grandi aziende che li utilizzavano per la prototipazione, cioè per costruire il primo elemento di una serie da produrre. Con gli anni e il progredire delle tecnologie, le stampanti 3D sono state migliorate e rese accessibili a un maggior numero di aziende, fino alla messa in commercio di stampanti “casalinghe”.
Da quando alcuni anni fa è scoppiato il boom della stampa 3D, si sono registrate opinioni diametralmente opposte. I suoi sostenitori sostengono che ci troviamo all’alba della terza rivoluzione industriale, che la stampa 3D sta minando le basi della produzione di massa e che grazie ai suoi sviluppi molti posti di lavoro torneranno in Occidente. Secondo i detrattori, invece, non si tratterebbe niente altro che di un “aggeggio” ingegnoso che sta suscitando un clamore esagerato. La verità, come spesso accade, sta nel mezzo. Le stampanti per i consumatori rappresentano solo il 5% del mercato e molte di esse sono ancora usate solo per creare modelli o prototipi; tuttavia già nel 2012 più del 25% degli oggetti prodotti con una stampante 3D erano parti finite: nel 2003 erano solo il 4% (dati Wohlers Associates).
Inoltre, il mondo della stampa 3D, valutato 3 miliardi di dollari lo scorso anno, crescerà quest’anno del 28%. Un vero e proprio boom che offre nuove possibilità in ogni settore, ma che tuttavia ancora è lontano dal minare le basi della tradizionale produzione di massa. Secondo gli esperti, come l’economista Jeremy Rifkin, la stampa 3D è solo parte di un complessivo cambiamento di prospettiva nella produzione industriale che da “top-down” si è aperta ad un modello “laterale, collaborativo e distribuito”.
Nasce così la figura del maker, o artigiano digitale, che, a stretto contatto con il proprio cliente, progetta e crea prodotti personalizzati e personalizzabili: inserendo questo rapporto nella già ben consolidata produzione di massa, i risultati potrebbero essere sbalorditivi. Ma è presto per trarre conclusioni. In Italia l’uso delle tecnologie di stampa 3D è già molto radicato. Alla fine del 2013 c’erano oltre 65.000 stampanti 3D industriali, cioè macchine da più di 5.000 dollari, nel mondo e il 3,5% di queste, cioè quasi 2.300, erano in Italia, rivela sempre Wohlers Associates. Gli Stati che stanno sviluppando maggiormente questi nuovi metodi di produzione sono quelli tecnologicamente più avanzati, come gran parte dell’Europa, il Nord America e alcuni paesi dell’Asia, dell’Africa e del Sud America. Tuttavia, spesso le realtà che vedono una maggior crescita legata a questa tecnologia sono quelle meno sviluppate e più isolate che possono così immediatamente produrre in loco anche oggetti complessi con costi e tempi di trasporto ridotti o quasi azzerati.
La produzione industriale italiana altamente specializzata ha fatto suoi questi strumenti dai primi anni 90, soprattutto nel settore automobilistico, aeronautico e orafo. La riduzione dei costi dei macchinari sta ora aprendo le porte al mondo del design, in una relazione mutualmente benefica, visto che sono proprio i designer a spingere i limiti e le possibilità di questo nuovo sistema produttivo. L’adozione degli strumenti digitali nella produzione artigianale è un’ulteriore frontiera da esplorare in cui l’Italia può ricoprire un ruolo di primissimo piano. Andando su e giù per lo stivale, si trovano moltissimi casi di progetti innovativi e aziende all’avanguardia capaci di suscitare l’interesse di molti mercati e investitori. “L’Italia è al passo con i tempi, perché in fondo siamo un popolo di inventori e ci piace ‘smanettare’ con le cose, modificarle, migliorarle, ma non molti hanno ancora capito le potenzialità di questo mercato – spiega Emanuele Ciccone, esperto di strategie digitali, User eXperience e tutto quanto riguardi il mondo dei makers –. Ritengo che non sia una tecnologia a cambiare le cose, ma le persone che ci sono dietro.
Le stampanti 3D non possono ancora competere sul piano dei costi con i processi industriali, ma sicuramente modificheranno alcune dinamiche. Un esempio tra tutti è rappresentato dai pezzi di ricambio. Alcune aziende hanno un catalogo vastissimo di ricambi: se si rompe un pezzo, oggi si va in negozio e se il negoziante non lo ha, lo si deve ordinare e aspettare che arrivi. In futuro si potrà andare sul sito del produttore e scaricare il file con il disegno tridimensionale pronto per essere stampato. In fondo è la stessa cosa avvenuta per cd e libri: prima si compravano nei negozi, oggi si possono acquistare negli store on-line”.
Un altro grande trend interessante potrà essere quello della super personalizzazione. “Il mercato dopo anni di produzione di massa è per certi versi saturo – aggiunge Ciccone –, e tutti noi desideriamo sempre di più qualcosa di nostro, di personale, di unico che non costi molto: la stampante 3D permette di realizzare oggetti unici a costi decisamente abbordabili. In questo senso sì, si sta già compiendo una piccola rivoluzione”.
Oltre a progetti innovativi e nascita di startup e nuove aziende, stanno spuntando un po’ dovunque negozi di stampa 3D che potrebbero diventare una sorta di mini-fabbriche di quartiere: il cliente descrive le caratteristiche dell’oggetto desiderato e il “negoziante” ne disegna un modello digitale pronto per la stampa. Sorti in tutto il globo, secondo 3DHubs, principale social network per chi stampa in 3D, Milano vanta la community più numerosa al mondo, battendo New York con oltre 70 macchine registrate. Un esempio è 3D Idea Factory, primo negozio dotato di stampante industriale, in grado di stampare quasi di tutto. Realtà simili non sono circoscritte al Nord, ma si trovano anche a Roma, Pescara e Siracusa. E sono moltissimi i Fab Lab nati su e giù per lo stivale che stanno diventando delle vere e proprie minifabbriche. In questi negozi, come nelle aziende specializzate e forse tra un po’ anche nelle nostre case, si può creare praticamente di tutto. In Giappone sono state stampate repliche di ossa umane precise al centesimo di millimetro, in Usa protesi dentarie e in Australia vasi sanguigni perfettamente compatibili: un primo passo, questo, verso la creazione di organi artificiali. La General Electric Co ha ordinato più di centomila copie di alcune parti d’aereo che renderanno un velivolo di linea più leggero.
L’italiano Michele Anoé ha vinto un concorso mondiale per essersi inventato un progetto di carrozzeria di automobile, mentre in Usa, Italia e Cina si stanno mettendo a punto delle enormi stampanti in grado di creare delle vere e proprie case: pezzi unici come i prefabbricati o da assemblare. Sembra proprio che questa tecnologia non abbia limiti. Un americano, Cody Wilson, ha messo on-line qualche tempo fa le istruzioni per fabbricarsi da soli delle armi perfettamente funzionanti: anche la possibilità di crearsi fucili e pistole in plastica è ormai una pericolosa realtà con cui dover fare i conti. E i conti andranno fatti anche con la proprietà intellettuale dei progetti e con le dinamiche che cambieranno nei mercati: che fine faranno gli intermediari e la logistica? E i dazi doganali? Come si modificherà il rapporto tra lavoro e domicilio? Che fine faranno i mercati locali? Abbiamo forse passato la preistoria di questa tecnologia e ci prepariamo a entrare nella storia. Si capirà presto se la stampa 3D rappresenterà la terza rivoluzione industriale o rimarrà un “aggeggio” ingegnoso.
Nelle botteghe dei makers
Un tempo c’erano gli artigiani con le loro botteghe che, a partire da lontanissimo, dal Rinascimento, hanno fatto la fortuna dell’Italia. Poi, in tempi più recenti, sono state le piccole e medie imprese con la loro creatività a creare ricchezza e benessere. Oggi la crisi incalza e colpisce duro in ogni settore, ma la tanto decantata ingegnosità italica sembra dare ancora un po’ di speranza. Gli artigiani di un tempo oggi sono diventati makers, o artigiani digitali: giovani e meno giovani, laureati principalmente in ingegneria, chimica e altre materie simili, che progettano in proprio apparecchiature robotiche, elettroniche, dispositivi per la stampa 3D, apparecchiature a controllo numerico, e che si dedicano anche ad attività più tradizionali, come la lavorazione dei metalli, del legno e l’artigianato tradizionale.
I makers rappresentano un movimento culturale, la cui base è la filosofia del “fai da te”. Ma attenzione: tutto ciò non va scambiato per un hobby, tutt’altro. I makers trasformano le proprie passioni e competenze in lavoro, spesso ingegnandosi anche nel trovare fondi e risorse. La “bottega” del maker è il Fab Lab (dall’inglese Fabrication Laboratory, laboratorio di fabbricazione): in pratica si tratta di una piccola officina che offre servizi personalizzati di fabbricazione digitale. Il primo fu creato nel 2001 all’interno del Center for Bits and Atoms del Mit. Da allora queste realtà si sono diffuse in tutto il mondo e consultando fabfoundation.org si può trovare la mappa e l’elenco di tutti i Fab Lab registrati. La maggior parte di queste officine utilizza macchine costruite a partire da progetti open source che poi vengono modificate per andare incontro alle specifiche esigenze di ciascun laboratorio e ripubblicate come nuovo progetto. Le macchine sono in gran parte costituite da pezzi stampati a loro volta da altre macchine, dando così vita ad un processo iterativo di replicazione in cui le macchine generano altre macchine sotto la guida di esperti che condividono le loro idee in modo libero tramite la rete.
I Fab Lab utilizzano tecnologie produttive che se non possono competere con la produzione di massa, hanno però dimostrato grandi potenzialità nel fornire ai loro utenti gli strumenti per realizzare prototipi funzionali alle proprie idee e ai propri progetti. Sono molti i concetti che stanno alla base del lavoro dei makers. Innanzitutto l’open source che permette la libera circolazione di idee e progetti in un clima collaborativo che spesso si esplica virtualmente in rete e fisicamente nel coworking, cioè in uno stile lavorativo, già molto diffuso, che consiste nella condivisione del luogo di lavoro, con conseguente scambio di opinioni ed esperienze. Un’altra parola molto importante da ricordare è crowdfunding o finanziamento collettivo: un processo collaborativo di un gruppo di persone che utilizza il proprio denaro in comune per sostenere dei progetti. Tramite le piattaforme web di crowdfunding un maker può presentare il proprio progetto e chiedere un contributo, in teoria a tutto il mondo, o per lo meno a tutti gli utenti della rete: raggiunta la somma stabilita, il maker può realizzare il proprio progetto, “ringraziando” i sostenitori con anteprime e regali. Non sempre funziona, ma da molti è considerato un valido strumento su cui puntare.
Per conoscere il mondo dei makers è utile farsi un giro in rete o, più classicamente, nell’annuale festival organizzato a ottobre a Roma, il Maker Faire Rome, uno degli eventi dedicati alla creatività e all’innovazione più importanti al mondo. In Italia esistono attualmente circa 50 Fab Lab ben avviati e competitivi, sparsi ovunque lungo la penisola: tra i tanti il “FabLab Roma Makers”, “FabLab Firenze”, il “Wemake” di Milano, l”Urban FabLab di Napoli, il “FabLab di Sardegna Ricerche” e altri. Il fenomeno è in crescita costante e si stenta a registrarlo con esattezza. I numeri a riguardo non sono molti e data la sua costante evoluzione è difficile dire anche quale sia il reale impatto sulla disoccupazione, soprattutto quella giovanile. Di concreto c’è il fatturato in costante crescita di aziende che hanno trovato nella crisi un’opportunità di rinnovarsi. Emblematico il caso de “La fabbrica lenta” di Giovanni Bonotto, storica azienda tessile veneta che grazie a innovazione e cura della qualità ha visto aumentare del 50% il suo fatturato dal 2007 a oggi; oppure la Sgv di Lecco, azienda di mobili che in piena crisi del settore riesce a fatturare ben 10 milioni di euro all’anno e a creare posti di lavoro. Tante speranze certo, ma anche tante realtà che fanno tornare la voglia di sporcarsi le mani e credere che in Italia si possa ancora lavorare degnamente.