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Un bilancio del Jobs Act, nella versione uscita dalla commissione Lavoro della Camera (sarà poi quella definitiva?), si divide necessariamente in due parti. La prima riguarda l'articolo 18, l'altra tutto il resto.
Dell'articolo 18 si deve esaminare sia il contenuto specifico che l'effetto “sistemico” (se così si può dire). Se ci si limita a un esame formale, letterale, della norma non sembra innovare granché rispetto alla versione Fornero. La sostanza, ridotta all'osso, è che si demanda al giudice la valutazione, nei casi in cui la giustificazione (economica ovvero disciplinare) del licenziamento non appare sufficiente, se disporre il reintegro o il compenso in denaro. Il limite da non valicare, anche nella versione Damiano-Sacconi, è dato dalla discriminazione, che va sanzionata con la nullità (oltre alla restituzione di quanto non corrisposto fino al reintegro).
Ma, qui sta il punto cruciale, concedendo un margine di discrezionalità al giudice (che fino al 2012 se non considerava provata la giusta causa non aveva altra scelta che dichiarare la nullità) si inficia in qualche misura la forza cogente della legge nei confronti del licenziamento discriminatorio. Spiegano i giuristi che la causa sta nell'inversione dell'onere della prova, che si viene a determinare. Per fare un esempio, se il datore di lavoro non motiva a sufficienza le esigenze economiche e produttive che lo portano a licenziare una persona che, poniamo, è una promessa sposa, o una mamma al rientro dalla maternità, come provare che la ragione (economica?) sia in definitiva proprio quella, che configura una discriminazione?
Spogliamo allora il dibattito politico degli orpelli mistificanti (e dei racconti della ninna nanna). Il presupposto che muove il governo Renzi-Poletti, che ha mosso a Ferragosto il partito di Alfano e Sacconi così come aveva mosso nel 2002-2003 il governo e il partito di Berlusconi e Sacconi, poggia su un presupposto ideologico chiaro nella sua logica elementare: un padrone quando licenzia non lo fa mai senza giustificato motivo perché un padrone è mosso solo ed esclusivamente dalla logica economica, del massimo profitto. Dunque è punibile solo se incorre in un reato (calunnia, falso ideologico, violenza privata o chissà cosa altro). E' lì che si vuole arrivare (anzi tornare, indietro nel tempo). Se la civiltà giuridica delle democrazie moderne non lo consente, ci si può avvicinare. E, fatto non secondario, si può veicolare il messaggio che così possa e debba essere. Per intimidire il giudice (non si intrometta nell'economia di un'azienda, non danneggi l'economia del paese) e costringere chi lavora a scendere qualche altro gradino della scala della sottomissione.
Questa ideologia ottocentesca che dovrebbe passare per moderna è desolante, perché si rivolge alla parte più arretrata, meno competitiva e meno civile della nostra imprenditoria. Quella che dovrebbe invece essere portata per mano (o, alle brutte, spinta a calci nel sedere) nell'era della democrazia industriale. Di cui, senza idolatrarla, non si può perdere di vista, a sinistra, il senso progressivo.
Invece siamo al punto che si fatica a ricordare che, quarant'anni fa, quella soglia (per i licenziamenti così come per il sistema di rappresentanza sindacale o, in seguito, per il collocamento obbligatorio) fu fissata proprio per proteggere quel soggetto, che in quegli anni si espandeva a macchia d'olio, portando ricchezza diffusa, ma soffriva di fragilità congenita. E ci sarebbe da indignarsi al pensiero che la sinistra, che di quella attenzione si era fatta espressione principale, paga ora con l'accusa di aver discriminato gli outsider, i dipendenti di quei padroni.
Di questo rovesciamento di senso è ora vittima la sinistra. Non Alfano o Sacconi, che in quella ideologia hanno trovato l'alimento per le loro fortune (diciamo così) politiche, ma la sinistra che, non essendo riuscita a trovare, dopo la caduta del Muro nell'89, la via d'uscita dagli anni Ottanta, ora, dopo aver subito vent'anni di Berlusconi, si affida a un'altra, assai più giovane, espressione di quegli anni e di quella cultura politica sterile e inefficace.
Che dire, dopo questa disquisizione sull'articolo 18, del resto del Jobs Act, che non sia già stato detto? Quello che doveva essere l'ultimo dei problemi, rischia invece di essere l'unico portato di una riforma che non riforma nient'altro. A dispetto delle aspettative e delle promesse.
Ripercorriamo le promesse. Porre di nuovo al centro il contratto a tempo indeterminato. Incentivare chi assume in questa forma, concedendo una flessibilità limitata nel tempo, su un percorso pre-determinato, a inizio carriera.
Invece il contratto a tutele crescenti diventa solo un espediente per indebolire, per i nuovi assunti, le tutele dai licenziamenti ingiustificati e si va ad aggiungere alle forme di precarietà esistenti. Mentre le risorse stanziate per incentivare le assunzioni stabili sono inferiori a quelle già in vigore in base a una norma (407/90) che ora viene abrogata.
Estendere il sussidio di disoccupazione a tutti coloro che cercano lavoro. Finisce che lo si estende solo ai parasubordinati che dovrebbero finalmente essere superati. Mentre si attende uno straccio di idea di politica industriale che non sia solo salvare il salvabile nell'insieme di aziende che chiudono.
Guardiamo anche il resto.
Ammortizzatori sociali: aggiustamenti, e niente più, riproponendo norme (buone intenzioni) fin qui rimaste inattuate, come l'attivazione del soggetto beneficiario con relative sanzioni in caso di rifiuto.
Servizi per l'impiego: la novità è un'Agenzia nazionale, tutta da scoprire. Anche qui, si ripetono norme già in legge 30 (sinergia pubblico-privato) o Fornero (sistema di monitoraggio - valutazione).
Semplificazione: restano i tempi determinati alla Poletti, si estende il campo di applicazione dei voucher. Quand'anche nei decreti attuativi si eliminasse qualche istituto rimasto sulla carta per evidente inutilità o inapplicabilità, la sostanza, l'ampio menù della precarietà, rimarrebbe immutata.
Testo unico (dei contratti di lavoro, dell'attività ispettiva): se ne parla sin dalla legge 30/03, è riesumato solo come veicolo per il contratto di ingresso con articolo 18 indebolito.
Genitorialità: si tratta di una risistemazione delle norme introdotte dal governo Prodi 2.
Il tutto “senza maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. E la legge di stabilità toglie ogni residua illusione. Quel po' che si riesce a recuperare si indirizza altrove.
Nulla da salvare? Figuriamoci, ci saranno aggiustamenti, miglioramenti da non buttare via. Ma di qui a parlare di riforma ce ne corre. Non si cambia verso, si prosegue nello stesso senso di marcia. Dalla lettera di gennaio del segretario Renzi doveva partire un'ampia discussione per un progetto che facesse ripartire il Paese. Ma a quel progetto mancava qualcosa. Mancavano le basi. Non si sapeva dove andare perché non si aveva idea di quale fosse il problema, che cosa non funzionasse. La diagnosi si riduceva a questo: l'Italia è in una “situazione di bella addormentata nel bosco” e il problema è “rompere l'incantesimo” (rileggere per credere). La trappola della precarietà (che ci rimprovera l'Ocse) la disoccupazione e il sottosalario dei giovani (che ci rimprovera la Bce) la mancanza di investimenti in innovazione e in competenze (che ci rimproverano un po' tutti) non erano neppure intravisti come problemi.
Se quello era l'obiettivo, diciamolo, l'incantesimo è stato rotto. I tabù sono stati infranti. Il dialogo sociale, lo Statuto dei lavoratori, l'impoverimento del lavoro, stanno passando per retaggi ideologici. Proprio come sosteneva la destra negli anni Ottanta. Sono passati trent'anni. Era un altro secolo e un altro mondo. C'era l'edonismo, Happy Days, la Milano da bere, e il CAF. Il debito pubblico esplodeva. Non sarà per caso quello, l'incantesimo da cui non riusciamo a svegliarci?
(da Eguaglianza & Libertà)