Reindustrializzare vecchi siti industriali giova all’economia, rimette in circolo energie produttive, crea lavoro. Ma, se lo si fa in un’ottica ecocompatibile, significa molto di più. Significa rigenerare i territori e contribuire fattivamente alla creazione di un nuovo modello di sviluppo. Il tessuto sociale, in questo modo, non sarà più qualcosa di separato dal mondo produttivo: industria, agricoltura, ambiente, università, scuola, istituzioni, cittadini consumatori e lavoratori sono chiamati a collaborare insieme per costruire un futuro migliore, che è poi anche un antidoto efficace contro i populismi che rischiano di mettere a repentaglio le nostre democrazie. Insomma: non ci possono essere un’uscita dalla crisi e una maggiore stabilità se non si ricreano solide radici di sviluppo sostenibile dell’industria nei territori con il coinvolgimento delle comunità locali.
La parola che indica con precisione questa idea di sviluppo è “bioeconomia” intesa, appunto, come rigenerazione territoriale. Una leva per riconnettere economia e società, superando l’attuale modello basato sulla finanziarizzazione, la produzione di quantità abnormi di beni e servizi, senza radici, senza preoccuparsi dell’ambiente, per arrivare invece a una sempre maggiore valorizzazione delle diversità territoriali, della qualità e dell’origine dei prodotti, combinando tradizione e innovazione.
Un’idea di questo tipo presuppone anche un diverso approccio alla tecnologia. Oggi essa viene sempre più spesso considerata – e non sempre a torto – come responsabile del degrado ambientale che affligge il pianeta, dei nefasti cambiamenti climatici, di un’ideologia del consumo usa e getta che produce scarti e rifiuti. La bioeconomia si fonda invece su un’idea praticamente opposta di tecnologia.
Tra i pionieri della bioeconomia c’è sicuramente Novamont, leader nello sviluppo e nella produzione di bioplastiche e biochemical attraverso l’integrazione di chimica, ambiente e agricoltura. Il modello Novamont si basa fondamentalmente su tre pilastri: la creazione di infrastrutture di bioeconomia, lo sviluppo di filiere agricole integrate e i prodotti intesi come soluzioni.
Una bioeconomia circolare, proprio perché fortemente legata al territorio, non può non partire dai tanti siti deindustrializzati che esistono nel nostro paese. Le fabbriche dismesse vengono generalmente considerate un problema da risolvere: le bonifiche costano tanto e sono anche impegnative dal punto di vista industriale in tutte le complesse fasi delle dismissioni. La sfida, all’opposto, è quella di considerarle un’occasione. Non più cattedrali nel deserto, ma infrastrutture di bioeconomia, bioraffinerie integrate nel territorio e tra loro interconnesse: veri e propri semi, punti di partenza di nuove filiere, partnership e alleanze.
Ogni impianto rappresenta, insomma, un’occasione per ragionare insieme alle comunità locali su come collaborare alla creazione di un progetto di accelerazione che, partendo da quanto già costruito, spinga tutta la filiera moltiplicandone le ricadute. Ad oggi Novamont ha “riattivato” 6 siti – tutti tra loro interconnessi –, con 4 tecnologie proprietarie e una serie di impianti di servizio fortemente innovativi, a loro volta in grado di produrre nuovi prodotti. Particolarmente interessanti, per sviluppi e implicazioni, sono due casi di successo: quello di Mater-Biotech e di Mater-Biopolymer.
Con un investimento di oltre 100 milioni di euro, lo stabilimento Mater-Biotech di Bottrighe (Rovigo) – inaugurato il 30 settembre del 2016 – è il primo impianto industriale al mondo dedicato alla produzione di 1.4 biobutandiolo (Bdo) da materie prime rinnovabili. L’impianto è nato dalla riconversione di un sito abbandonato.
l sito produce 30.000 tonnellate l’anno di Bdo a basso impatto, con un risparmio di oltre il 50% di emissioni di CO2. La produzione, infatti, è “bio”: nel senso che Novamont, grazie a una tecnologia sviluppata in partnership con Genomatica, società di innovazione nella bioingegneria con sede in California, ha messo a punto una piattaforma biotecnologica che, partendo da zuccheri attraverso l’azione di batteri di tipo escherichia-coli (e.coli) opportunamente ingegnerizzati, li trasforma in biobutandiolo.
L’1.4 biobutandiolo è un composto importante, usato sia come solvente che per la produzione di bioplastiche, fibre elastiche e poliuretani. In particolare è componente fondamentale per la produzione della quarta generazione del Mater-Bi, bioplastica biodegradabile e compostabile realizzata a partire da risorse rinnovabili. Il mercato del biobutandiolo vale 1,5 milioni di tonnellate per circa 3,5 miliardi di euro l’anno, e si stima che nel 2020 raggiungerà 2,7 milioni di tonnellate con un valore di oltre 6,5 miliardi di euro. Ad accrescere il profilo della sostenibilità ambientale del biobutandiolo sta anche l’efficienza energetica dell’impianto, concepito per riutilizzare i sottoprodotti della lavorazione per il fabbisogno energetico dell’impianto stesso, ottimizzando così il ciclo di vita dell’intero processo.
Ovviamente, il tutto sempre nell’ottica di quell’economia circolare di cui abbiamo parlato: il sito veneto rappresenta infatti un’importante occasione per moltiplicare le opportunità della filiera delle bioplastiche e dei biochemical, per nuove idee imprenditoriali, per la creazione di posti di lavoro e per un futuro a maggiore sostenibilità ambientale e sociale.
Altro caso di rilievo è quello dell’impianto Mater–Biopolymer di Patrica, in provincia di Frosinone, inaugurato il 19 ottobre 2018. Anche in questo caso lo stabilimento nasce da una riconversione, quella dell’ex impianto Mossi & Ghisolfi, dedicato alla produzione di Pet, e anche in questo caso si è scelta la strada dell’innovazione e della sostenibilità. Le diverse sezioni dell’impianto sono state infatti rigenerate, modificate e in alcuni casi totalmente rinnovate, applicando le tecnologie sviluppate da Novamont. Si tratta di tecnologie in grado di utilizzare le materie prime della filiera Novamont – biobutandiolo e acido azelaico, monomeri bio-based – per la produzione di biopoliesteri Origo-Bi attraverso un processo sempre più sostenibile e costantemente orientato alla riduzione delle emissioni. I biopolisteri Origo-Bi entrano nel processo di realizzazione della famiglia di bioplastiche compostabili Mater-Bi, migliorandone le performance tecniche e ambientali.
Lo scorso novembre, poi, un ampliamento del sito ha permesso di affiancare alla produzione di Origo-Bi quella delle bioplastiche compostabili Mater-Bi (tradizionalmente realizzate nel sito di Terni), permettendo così un incremento di 40 mila tonnellate della capacità produttiva. Una risposta alla forte crescita della domanda di manufatti biodegradabili e compostabili che si sta determinando grazie all’aumento della sensibilità ambientale dei consumatori e allo sviluppo di normative improntate a promuoverne l’utilizzo in determinati settori e applicazioni.
Lo stabilimento laziale è dotato, inoltre, di un complesso sistema di utility che permette di minimizzare i costi e gli sprechi attraverso il recupero degli scarti e dei co-prodotti, in un’ottica di economia circolare e sostenibilità. L’approccio alla valorizzazione dei co-prodotti ha consentito di sviluppare un processo per l’ottenimento di tetraidrofurano (Thf), un intermedio chimico strategico per l’industria chimica e farmaceutica.
L’impianto costituisce un tassello nel modello di bioraffineria integrata nei territori. Ha una capacità produttiva di 100 mila tonnellate l’anno di Origo-Bi, insiste su una superficie totale di 140.000 mq e occupa circa 90 dipendenti. A questo dato va però aggiunta l’occupazione indiretta necessaria per il suo funzionamento (manutenzione, movimentazione materiali eccetera) e quella indotta.
Notevoli anche i risultati dal punto di vista dell’impatto ambientale: la riconversione della seconda linea di produzione e il recupero del Thf consentono di ridurre notevolmente le emissioni di CO2 per un ammontare di circa 246.000 tonnellate di emissioni equivalente l’anno.