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Le condizioni occupazionali in Italia e in Europa sono drammatiche. Sono sempre di più gli economisti che riconoscono come la crisi economica sia una crisi da domanda. Molti sostengono la necessità di riforme strutturali. Un aggettivo – “strutturale” – che può far pensare che tali riforme siano per governare i movimenti nel tempo delle grandezze economiche in relazione alla variazione nel tempo delle loro componenti. Agire sulla struttura economica presuppone una qualche forma di programmazione della produzione. E tuttavia le riforme strutturali di cui si parla sono riproposizioni della vecchia ricetta secondo cui la riduzione delle rigidità del mercato del lavoro si tradurrebbe in un incremento dell’occupazione.
La lettera firmata da Trichet e Draghi e inviata al governo italiano nel 2011, suggerisce “di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa, in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione”, e di realizzare una “accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi”. Si dovrebbe pertanto agire sull’offerta di lavoro per renderla più conveniente per i datori di lavoro.
Siamo di fronte a una variante della teoria ortodossa criticata da Keynes, valida solo sotto ipotesi restrittive e, quindi, limitata a un caso particolare. La teoria generale dell’occupazione di Keynes si basa invece sull’idea che “il volume dell’occupazione... dipende dall’ammontare del ricavo che gli imprenditori prevedono di ottenere dalla produzione corrispondente”. La domanda di lavoro da parte delle imprese è ciò che determina principalmente l’occupazione. Da qui proviene l’idea che sia necessario un intervento pubblico per colmare il vuoto di domanda che con ogni probabilità il settore privato produrrà. Eppure, ricordava Caffè, l’insegnamento di Keynes “non si riduce a un ricettario di politiche valide per tutti i tempi; ma tende al superamento di ostilità preconcette nei confronti dell’intervento pubblico nella vita economica, il cui compito integratore delle forze di mercato in tanto risulterà valido, in quanto sarà in grado di adattarsi alle mutevoli circostanze storiche”.
Di questo necessario adattamento, Keynes era consapevole: “Non soltanto la propensione marginale al consumo è più debole in una collettività ricca, ma, siccome il capitale già accumulato è maggiore, vi saranno possibilità meno attraenti di investimenti ulteriori”. Il sostegno della domanda effettiva attraverso un intervento pubblico indiscriminato (l’aumento della spesa dello Stato) non basta, poiché l’evoluzione del sistema economico fa mutare qualitativamente consumi e investimenti, cioè le componenti principali della domanda. Sia la riduzione che la crescita del reddito conducono a un cambiamento nella struttura produttiva e soprattutto nell’investimento. Ciò ha conseguenze sulla distribuzione dei redditi e in particolare sul livello dei salari e sui livelli di protezione del lavoro (sebbene esistano feedback che dipendono dalla capacità che i lavoratori hanno di gestire il processo produttivo).
Il modo in cui cambia la specializzazione produttiva conta molto. Come insegna Sylos Labini, “in un’analisi dinamica, lo sviluppo economico è da riguardare, non semplicemente come un aumento sistematico del prodotto nazionale concepito come aggregato a composizione data, ma, necessariamente, come un processo di mutamento strutturale, che influisce sulla composizione della produzione e dell’occupazione e che determina cambiamenti nelle forme di mercato, nella distribuzione del reddito e nel sistema dei prezzi”. Le innovazioni non influenzano in modo uniforme il sistema economico. Non basta dunque un sostegno indiscriminato tanto ai consumi quanto agli investimenti; occorre invece governare il loro cambiamento.
Le implicazioni sono enormi: per contrastare la scarsa domanda di lavoro dobbiamo studiare in quali settori si localizza il flusso delle innovazioni, perché non riguarderà tutte le attività produttive. La domanda effettiva, e quindi la domanda di lavoro, si concentra specialmente nei settori produttivi più innovativi. Occorre anche considerare che al crescere del reddito non si consuma di più, ma si consumano beni diversi, che spingono le imprese a programmare nuovi investimenti per intercettare la nuova domanda. Questo è vero anche quando l’innovazione viene importata da un altro sistema economico: ciò che però verrà a determinarsi in questo caso sarà una dipendenza tecnologica dall’estero.
Occuparsi di lavoro non significa limitarsi alle politiche del lavoro; occorre una prospettiva di politica economica in cui coordinare diverse politiche pubbliche per governare il cambiamento (dal credito alla ricerca e sviluppo, dalle strategie industriali al sociale). Ciò emerge dagli insegnamenti di un altro maestro dell’economia politica formatosi tra gli allievi di Keynes, Pasinetti: “Se il sistema economico è in grado di portare avanti con successo una redistribuzione settoriale dell’occupazione da settori in declino verso settori in espansione, il profilo del progresso tecnico, del reddito, anche del fattore lavoro, tenderà a essere virtuoso nel lungo periodo”.