PHOTO
Dopo aver ottenuto il lavoro ed essersi trasferito a New York e aver scoperto che gli piaceva andare a letto con gli uomini (cosa che avevo sempre sospettato), SG aveva smesso del tutto di raccontare di sua madre, dalla morte della quale pensava di aver guadagnato abbastanza: anni di baldoria in lingua straniera e un lavoro nella sua città preferita come risarcimento del karma. Dunque aveva smesso quasi del tutto di parlarne. E non parlava nemmeno poi tanto di quella bastardata fattagli dal coordinatore dei dottorandi qualche anno prima: tutto bene quel che finisce bene.
Ma torniamo sul brutto gesto del professore coordinatore dei dottorandi della facoltà di filosofia:
Dopo un anno di dottorato senza borsa di studio, mentre la madre faceva il primo ciclo di chemioterapia, SG si era trasformato per la prima volta in vita sua in una creatura dickensiana allorché durante un convegno in Germania aveva intessuto rapporti con un professore francese che gli aveva offerto una borsa di un anno, intorno ai diecimila euro netti, per guadagnare qualcosa durante il dottorato. Non avrebbe dovuto modificare il suo progetto, ma solo lasciarsi seguire anche dalla Francia. Il coordinatore dei dottorati – un professore della sua facoltà incaricato di seguire l’andamento dei dottorati anche a livello amministrativo – non autorizzò la borsa perché tutta la vicenda era avvenuta a sua insaputa e dunque “in modo tecnicamente scorretto”. Questo improvviso rigore era dovuto solo al fastidio di essere stato tagliato fuori: altre borse erano state assegnate dall’estero con la medesima modalità e nessuno sapeva perché in questo caso – al di là del gusto puro dell’arbitrio – il professore aveva pensato di negare la borsa. Ci si mise un altro professore: l’ordinario cui SG era affiliato. Questi non difese il suo pupillo perché era in attesa di altri favori più urgenti dai professori di facoltà e non poteva spendersi per questi diecimila euro: un imprevisto che rischiava di far sbilanciare l’equilibrio di favori e controfavori di facoltà in suo sfavore. Così SG vide svanire quei diecimila euro netti, che non erano certo una fortuna, né lo salvavano dalla strada visto che viveva con sua madre, ma insomma a livello simbolico potevano valere qualcosa (SG non aveva ancora scoperto la cocaina quindi non posso fare battute sulle spese dissennate che quell’ingiustizia gli ha risparmiato).
Il professore coordinatore dei dottorandi era proprio un cattivo perfetto: faceva del male con noncuranza e aveva anche un suo sgherro/tirapiedi/aiutante/pupillo: un dottorando, dunque un collega di SG, che pareva un character study sull’arrivismo accademico. I due formavano un duo di Batman e Robin malvagi, di memorabili villains.
Il coordinatore dei dottorandi di facoltà assomigliava ad Aldo Busi e non era simpatico ma piacente, alto e probabilmente omosessuale, cosa che nel suo caso diventava un difetto da additare in sede di pettegolezzo; il suo pupillo aveva anche lui l’aria omosessuale, era alto, palestrato, anche lui quasi sempre vestito di nero, con magliette o camicie, anch’esse quasi sempre nere o talvolta (peggio ancora) bianche.
Il coordinatore dei dottorandi era un cinquantenne giovanile che tentava l’approccio simpatico e non riusciva perché era cattivo. Un esempio della sua cattiveria: il giorno delle tesi aveva incoraggiato i dottorandi a esprimere il loro parere sulla gestione del dottorato, e dopo che questi, avendo tentennato perché sapevano che era inutile parlarci, su sua insistenza (“chiedetemi quello che volete, liberamente, tra noi”) avevano infine espresso l’augurio che per i dottorandi dei nuovi cicli si rendesse disponibile una stanza dove isolarsi dagli studenti dei corsi di laurea, magari con un computer su cui controllare la posta (nell’era pre-iPhone); a questa richiesta aveva risposto: “Ma come vi viene in mente una cosa del genere, non è assolutamente possibile ricavare una stanza – e da dove? Chi ce la può dare? Ma che richieste fate”?
Quanto al suo pupillo: godeva di privilegi inaccettabili secondo i criteri un po’ illuministi (e non mediterranei) della deontologia professionale. Esempio: il giorno della discussione delle tesi, mentre i suoi colleghi aspettavano in un caldo infernale fuori dalla sala professori, lui era libero di entrarvi e uscirne con la scusa che era lì che passava ogni giornata per aiutare il suo professore (gli altri non avevano scrivanie nelle stanze dei propri professori perché erano in rapporti molto meno stretti – da cui il sospetto che questo generoso professore avesse motivi sentimentali per concedere tanto a un semplice dottorando). Quando usciva dalla stanza dove erano raccolti i membri della commissione, non vergognandosi del conflitto di interessi, anzi cavalcandolo, il dottorando antipatico diceva: “Mi pare che l’atmosfera sia buona. Fra poco si comincia. I professori sono di buon umore”. Non aveva mai fatto amicizia con gli altri dottorandi e non sembrava pentirsene, visto che – difficile dargli torto – i posti all’università in prospettiva erano pochi e l’unico modo per aumentare la possibilità di fare carriera e farsi pagare era ottenere un qualunque privilegio anche solo simbolico, l’apertura di una linea di credito morale presso il proprio professore, senza guardare quanto potesse apparire assurda dall’esterno o dal coro greco dei propri colleghi, da cui si voleva distinguere a tutti i costi.
(Per questo motivo l’omosessualità, lì in facoltà, nonostante i dottorandi fossero tutti di vedute aperte e in certi casi libertarie, era diventata la gustosa lettera scarlatta, il risibile triangolo rosa, la gioiosa, saporosa condivisione di un sospetto, di cui si poteva parlare e mai tacere quanto si voleva – era diventata il segno di una perversione imperdonabile. Tale metro si applicava solamente a quei due, che nemmeno erano dichiaratamente gay.) In quei giorni la madre di SG era di nuovo grave e SG, senza esserne poi troppo consapevole, si aspettava da ogni cultore della filosofia che i filosofi e gli aspiranti tali riflettessero una qualche forma di sommo bene, di luce, di verità, qualcosa di elevato che rendesse meno intollerabili i futuri mesi di ospedale, stanchezza, insonnia, medicine, cupezza, morte. Così a SG fu particolarmente indigesto il capolavoro di perfidia con cui il pupillo del coordinatore dei dottorandi esibì il proprio piccolo potere dopo che tutti i dottorandi ebbero concluso le proprie dissertazioni davanti alla commissione.
Così: il coordinatore dei dottorandi era sceso in strada per prendersi un caffé. Su invito del dottorando arrivista, gli altri dottorandi entrarono nella stanza del professore: “Andiamo, vi faccio leggere i giudizi”. Ora, poco prima era accaduta una cosa: dopo che ogni dottorando aveva difeso il proprio lavoro di fronte alla commissione e sotto i neon del soffitto, accesi nella stanza già illuminata dal sole, l’unica stanza con aria condizionata di tutto il piano, il terzo, del palazzo ottocentesco malamente adibito – con postmoderno irretimento di cavi, tubi, coperture in plastica, pannellistica – a edificio pubblico, il coordinatore dei dottorandi, prima di andare a prendere il caffè con gli altri professori, aveva raccolto gli esausti giovani accademici nella sala di lettura e, con l’aria distratta di chi non sa come suonano agli altri le proprie parole, senza alcun tatto aveva commentato: “Alcuni di voi hanno deluso, a livello di tesi. Ma non vi diremo chi. Sta scritto nei giudizi, e i giudizi rimangono nei registri ma non vengono comunicati al pubblico”. La cosa aveva gettato SG e i suoi colleghi in una colossale paranoia.
Ora che il professore era sceso a prendere un caffè, il suo pupillo portò i colleghi appena addottorati nella stanza del professore, dove con calcolata nonchalance prese posto davanti al solo computer presente, una vecchia macchina beige con tastiera dai tasti alti, probabilmente windows 98, che era rimasto proprietà del dipartimento come sorta di macchina da scrivere: non si connetteva alla rete, serviva solo a scrivere e stampare.
Quando spinse il tasto dello schermo, la superficie antracite si accese in un pigro abbaglio, andando a mostrare un file word su cui era scritto uno dei giudizi. “Se vi interessa, posso leggerveli tutti. Ditemi voi”. I dottorandi volevano affrontare il supplizio di sentirsi leggere l’eventuale stroncatura accademica di fronte ai colleghi: non è chiaro il motivo, ma tutti volevano sapere, a costo di venire bollati come insufficienti davanti ai propri rivali. Il giovane malvagio, che vestiva di nero anche in estate, lesse il primo: una breve considerazione di cinque righe con cui la commissione si dichiarava poco affascinata dal lavoro presentato. Sentendosi così ridimensionato dopo quattro anni di lavoro ingrato senza borsa, il neo-dottore sbiancò mentre il sudore prodotto in terrazzo si congelava sulle tempie e tra pelle e camicia a righine rosse nell’ambiente climatizzato. Dopodiché il malvagio lesse altri cinque giudizi, prima che un paio dei colleghi non ancora chiamati in causa dicessero: “Ma magari smettiamo, io non me la sento”.
Ecco come erano stati recuperati i giudizi segreti. La commissione in sostanza scriveva i suoi giudizi su un unico file, di volta in volta cancellando e sostituendo il testo con quello nuovo, senza mai premere Salva, in modo da conservare intestazioni e formalità varie, “il candidato ha dimostrato…”, in data, lì, eccetera, evidentemente incapaci di creare un modello di file da aprire ogni volta già pronto. Cliccando ctrl + z, ossia undo, il pupillo del coordinatore dei dottorandi effettuava il percorso a ritroso, facendo riaffiorare sulla pagina virtuale i giudizi che erano stati via via scritti, stampati, cancellati.
È un dettaglio irrilevante, perché se anche i file fossero stati salvati ciascuno con il nome del candidato e conservati non solo come fogli stampati ma nella versione informatica, il pupillo del coordinatore sarebbe comunque stato in grado di aprirli. Ma quell’idea di andare a prendere il file, rimasto aperto sul vecchio computer beige dallo schermo acido, e farne rivivere, davanti al capannello intorno a lui raccolto di neo-dottori in filosofia, le successive incarnazioni del Giudizio per rivelare a tutti, tutti insieme, nemmeno privatamente, se la tesi di ciascuno fosse fra quelle che la commissione aveva trovato insufficienti, quell’idea aveva dato a SG e agli altri un senso di disagio: il senso di trovarsi di fronte a una persona malvagia, la cui ricerca del successo prevedeva non solo un oscuro lavoro alle spalle di tutti (succhiare il cazzo al professore?), ma anche un genere di soprusi di valore esclusivamente simbolico, privi di autentiche giustificazioni pratiche.
(Dettaglio non irrilevante: come detto, due anni prima il coordinatore gli aveva letteralmente sfilato dalle tasche diecimila euro. Diecimila euro. Che SG, uomo non privo di personalità, riteneva di aver guadagnato grazie alla propria intelligenza e presenza scenica, conquistando un professore francese, durante una cena a un convegno, con una irresistibile difesa della filosofia morale di Cora Diamond incentrata sul ruolo delle fotografie di soldati in libera uscita nell’informare cinquant’anni di sensibilità morale occidentale. L’avrebbe considerata una truffa se il coordinatore se li fosse intascati, ma quello del coordinatore era stato un virtuosismo di ego e cattiveria fine a se stesso. Ovviamente il professore sapeva del tumore della madre, ma non se n’era ricordato al momento di negare la borsa; SG dal canto suo aveva preferito non ricordarglielo: usare la malattia di sua madre per ottenere diecimila euro gli pareva peggio che succhiare cazzi).
(Secondo dettaglio non irrilevante: il pupillo era mica d’accordo col coordinatore? Perché fare una cosa così alle spalle del coordinatore rappresentava un rischio. D’altro canto era impossibile credere che i due fossero d’accordo: sarebbe stato troppo apertamente malvagio. Scenario: “Quando tu esci, tesoro mio, io faccio leggere i giudizi della commissione ai dottorandi”. Improbabile. Eppure, forse, una giustificazione di questo genere avrebbe potuto in effetti, italianamente, far sembrare perfino generosa l’idea. Immagino il dialogo: “Io vorrei che conoscessero i giudizi”, dice il professore, “ma non posso; non è professionale; però i ragazzi meritano di saperlo”. “Potrei farlo io”. “Ma non puoi prendere i giudizi, non si può”. Da lì, l’intraprendente dottorando poteva aver avuto l’idea del ctrl + zeta e del file lasciato distrattamente aperto).
Il sopruso del ctrl + zeta era stata la goccia, per SG. Lui che era un esperto di umorismo americano, e che conosceva il principio della battuta di Woody Allen “Non solo Dio non esiste, ma provate a trovare un idraulico di domenica”, e che conosceva anche quel saggio di Montaigne sul fatto che un uomo forte può resistere alla morte di un parente, ma non a quella del proprio cane se avviene subito dopo quella del parente, aveva imparato, in America, a concludere l’aneddoto del ctrl + Z, le poche volte che lo raccontava e a pochi intimi, dicendo solo: “First my mother gets cancer, and now this?” This era l’umiliazione di vedere il pupillo tenere in pugno tutti i suoi colleghi con il trucco del ctrl + Z. Con gli amici veramente intimi aggiungeva: “Non capisci: il mio collega era una persona volgare. Andava in palestra, faceva i pesi; era pompato! Un filosofo pompato! No no no no no no! Aveva i capelli corti; col gel! Portava solo magliette nere aderenti o camicie nere. Leggeva i romanzi di Ruiz Zafon! Non capisci. Ascoltava i Dream Theater! Ascoltava i Dream Theater e prendeva lezioni di chitarra metal! Mentre ci parlavi faceva quel gesto istintivo di provare le scale con le dita della mano sinistra; hai presente? Come se provasse le scale sulla tastiera della chitarra. E la sua chitarra elettrica? Suonava una Ibanez! Una Ibanez gialla!”