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Il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese ha pronte le modifiche ai decreti sicurezza. Di alcune se ne parlerà in consiglio dei Ministri e terranno conto delle osservazioni del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. È un fatto positivo a quanto pare. Se l’attuale ministro riuscirà a svuotare nei contenuti quegli “imbarbarimenti della risposta ai fenomeni migratori e di devianza” introdotti da Salvini attraverso un vero e proprio incattivimento propagandistico da noi più volte denunciato, allora sarà veramente una buona notizia. Del resto, oltre a Mattarella anche il Cedu (la Corte europea dei diritti dell'uomo) aveva stigmatizzato il fatto che tali decreti, al di là di paventati cambi di prospettiva repressivo-preventiva, celassero – attraverso una tutela anticipata esasperata – sanzioni amministrative fortemente punitive con caratteristiche “para-penali”. Ma il bisogno di sicurezza nel Paese ha così bisogno di questi decreti?
La politica affronta da tempo simili tematiche con produzioni normative che, oltre a non seguire il medesimo indirizzo, finiscono spesso col dar risposta agli “umori del momento”. È un procedere sbagliato. Non si possono dare risposte semplici a domande e problemi sempre più complessi e che richiedono un aumento di modalità d’intervento con gestori che non possono essere i soli attori che – come nel caso dei miei colleghi – operano in particolare sul versante repressivo. Oggi la produzione del “bene sicurezza” passa attraverso la conoscenza dei problemi dei cittadini, la reale prevenzione, il rafforzamento della coesione del vicinato e dei presìdi, soprattutto quelli di legalità che andrebbero potenziati e non soppressi. Bisogna altresì accrescere l’impegno su un altro versante che è quello culturale affermando sempre più il rispetto, il senso civico e la tutela dei beni comuni.
È cambiato il modello di sicurezza. Le forze dell’ordine non sono sufficienti, né mai lo saranno. Questo perché gli “operatori della sicurezza” sono solamente una parte degli attori oggi in campo e non hanno, né possono avere l’esclusiva. Operatori peraltro falcidiati da anni di riduzione del turn-over con l’età anagrafica più bassa del mondo occidentale. Basti pensare che a luglio 2005, quando venne istituito il poliziotto e il carabiniere di quartiere, prestavano servizio ben 3.700 unità. All’epoca la sola Polizia di Stato vantava un organico di 110.638 oggi scese a 98.638, a fronte di poche centinaia di poliziotti e carabinieri di quartiere attualmente in servizio. Lo Stato ha perso il monopolio della forza legittima ed è cambiato il sistema pubblico che coinvolge più soggetti con uno schema organizzativo che da piramidale (verticale) si è trasformato in reticolare (orizzontale).
Del resto, il binomio che tutelava incolumità delle persone e la tutela della proprietà istituito sul modello di “pubblica sicurezza” del 1931 è andato man mano a modificarsi con la “sicurezza urbana” degli anni ‘90 che a tali tutele ha aggiunto anche la qualità della vita e il pieno godimento dello spazio urbano. Per far fronte a tutto questo vengono chiamati oggi più soggetti, coloro che rappresentano, di fatto, l’applicazione operativa dell'attuale “sicurezza partecipata” composta da operatori del settore, ma anche da tantissimi volontari.
L’importante è dunque evitare le strumentalizzazioni. Se è vero che la Convenzione europea e la Carta europea dei diritti dell’uomo hanno focalizzato l’attenzione dei decreti che dalla sicurezza traggono il nome rispetto ai limiti tra i diritti di libertà e il potere delle autorità pubbliche, viene spontaneo domandarsi fino a che punto ognuno di noi limiterebbe la propria libertà per un’esigenza di sicurezza. La nostra risposta ci porta a rispondere ad un’altra domanda: siamo veramente in presenza di un fenomeno di una ferocia così sanguinaria che si abbatte su inermi cittadini ai quali le forze dell’ordine non saprebbero assicurare la giusta sicurezza? Statistiche alla mano, il Paese ha raggiunto i livelli più bassi di criminalità dalla storia d’Italia.
Mai come in questo periodo le società occidentali europee sono le più sicure nella storia umana. Ciononostante è aumentata la percezione di insicurezza. Gli italiani sono i più emotivi in Europa e la loro percezione di insicurezza, al contrario del rischio concreto di subire una violenza, si va affermando sempre più come una realtà alternativa. Personalmente ritengo l'aumento quasi ingiustificato delle nostre paure dovuto a diversi fattori tra cui il contesto di una popolazione sempre più anziana; un crescente deficit culturale e di opportunità in particolare tra le fasce più a rischio; le incertezze economiche crescenti e altro ancora.
Un’ulteriore motivo che induce molti nostri connazionali ad essere sempre più pessimisti – oltre ad avere una minor capacità di comprendere la realtà che ci circonda – ritengo sia l’enfasi che viene data alla criminalità che “distoglie” molto spesso dalle preoccupazioni crescenti. Non è un caso che in Italia i telegiornali dedichino dal 30 al 50 per cento di tempo in più rispetto agli altri tg europei a notizie di cronaca nera, tanto che Ilvo Diamanti della Demos ha affermato che, nel nostro Paese, la “criminalità è un genere televisivo di successo”. Se a ciò si aggiunge che la paura può essere una risorsa per la legittimazione politica e la costruzione del consenso, abbiamo così spiegato cosa non si dovrebbe fare.
Di contro, ogni iniziativa seria volta a stimolare un sistema di valori condivisi che coinvolga tutti gli attori è invece la giusta risposta ai temi che ineriscono il bisogno di sicurezza del nostro Paese. È proprio l’approccio culturale il primo aspetto che dovremmo affrontare – oltre agli aspetti connessi alla microcriminalità connotata con un termine riduttivo – che ci deve far interrogare se abbiamo perso o meno il contatto con le persone e con i loro problemi. Nei luoghi ove le persone vivono, lavorano e passano il loro tempo libero occorre la nostra presenza.
Il territorio va conosciuto e presidiato ogni giorno dell’anno senza sporadici blitz o campagne di sicurezza virtuale tipo “strade sicure” con personale militare che ha compiti di non fungibilità rispetto alle mutate esigenze di sicurezza urbana. Il modello da seguire è pertanto quello di mettere in atto procedure e attività volte a migliorare la qualità della vita con tutti gli attori, in particolare con gli enti pubblici, recuperando degrado, servizi e beni in sinergia anche con le due agenzie di socializzazione formale che trascuriamo sempre, ma che sono strategicamente importanti: scuola e famiglia. Il resto verrà da sé.
Daniele Tissone è segretario generale Silp Cgil