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La ripresa non è all’orizzonte. Non può esserlo. I tratti strutturali della crisi sono ancora lì. L’aumento delle disuguaglianze e la finanziarizzazione globale continuano a rendere “squilibrato” il rapporto capitale/lavoro a scapito dell’occupazione, della crescita e, perciò, della ripresa. Eppure le linee di politica economica europee ancora continuano a preoccuparsi delle conseguenze economiche e finanziarie della crisi, soprattutto sui mercati e sui conti pubblici, ma ancora non si curano delle cause alla base dei “vuoti” strutturali di domanda effettiva, in Italia e in Europa.
Apparentemente, la politica di austerità potrebbe sembrare attenuata, più “flessibile”: basti pensare ai, pur esigui, margini di bilancio concessi a Francia e Italia, oppure al Piano Juncker, e non ultimo al Quantitative Easing deciso ieri dalla Bce. In realtà, si tratta solo di un’obbligata linea difensiva contro recessione, depressione, deflazione e stagnazione di lungo periodo. E, per di più, tali misure continuano a esprimere un approccio liberista, sempre orientato a contenere il perimetro pubblico, a governare le scelte economiche degli Stati in favore dei poteri costituiti, legati alla finanza e al commercio internazionale. Lo dimostra l’ostinata, anzi ottusa, convinzione che vadano portate fino in fondo le cosiddette “riforme strutturali”, tra cui in primis c’è quella del mercato del lavoro.
Per i paesi periferici diviene un imperativo europeo “ristrutturare” la legislazione del lavoro e spostare i “rapporti di forza” per dare più potere alle imprese. In Italia, al di là della propaganda di governo, il Mef “programma” nel medio e lungo periodo un livello di disoccupazione (e una mancanza di occupazione pressoché analoga a quella attuale), senza peraltro sospingere produttività e salari. Nonostante la deflazione, l’ossessione per il governo dell’inflazione impedisce scelte di politica economica per la piena e buona occupazione.
Riforme (ri)strutturali e svalutazione competitiva del lavoro costituiscono il faro e la conditio sine qua non a cui mirano le Raccomandazioni europee e la Commissione europea non approva le leggi di stabilità e le politiche economiche nazionali; ignorando le sollecitazioni delle principali istituzioni internazionali (compreso il Fmi) a compiere un altro tipo di riforme, “di struttura” e infrastrutturali, non di ristrutturazione. In questo contesto, la Legge di stabilità italiana per il 2015 scommette tutto su investimenti privati e, in particolare, esteri, portando avanti con decreti la riforma del diritto del lavoro che prende il nome di Jobs Act e che non ha niente a che vedere con l’omonimo piano Usa promosso da Obama qualche anno fa.
A essere precisi, non si tratta nemmeno di politiche per l’occupazione, politiche attive o welfare to work. Si tratta solo di un intervento di deregolazione e decollettivizzazione del lavoro. Non esiste in letteratura economica alcuna evidenza che tali modalità generino aumenti di occupazione e produttività. Anzi, l’approccio sta proprio dentro quella teoria andata in crisi con la crisi, che fonda nel mercato del lavoro i presupposti per aumentare la competitività. Sbagliato.
A prescindere dai vincoli e dai limiti imposti dall’Europa, gli schemi di incentivazione all’occupazione, soprattutto se sostenuti attraverso la leva fiscale, devono essere selettivi e restituire ai salari parte della riduzione della pressione fiscale. Al contrario del Jobs Act e della Legge di stabilità 2015, bisognerebbe vincolare gli sgravi contributivi, le riduzioni dell’Irap sul costo del lavoro e l’utilizzo di un contratto di inserimento – di certo non un “contratto a tutele crescenti” solo monetarie e senza diritti fondamentali – alla creazione di occupazione aggiuntiva, ovvero addizionale, rispetto ai livelli già previsti dalle imprese che intendono utilizzare tali incentivi.
I maxi job e, in generale, il Job Italia proposto dalla Fondazione Hume e da Luca Ricolfi rappresentano un esempio in questa direzione. In sintesi, il Job Italia incrocia la possibilità di utilizzare da 1 a 4 anni un contratto di lavoro a costi inferiori, abbattendo il cuneo fiscale e contributivo, i cui vantaggi però verrebbero distribuiti anche nella busta paga del nuovo lavoratore. A parità di risorse utilizzate in Legge di stabilità 2015 e contando sui cosiddetti “moltiplicatori” dell’occupazione, del reddito e del gettito fiscale, il Job Italia rappresenta una delle possibili alternative alle misure messe in campo dal governo.
Certo, gli obiettivi di fondo sono molto diversi: nel Job Italia si dichiara di voler aumentare l’occupazione e utilizzare i margini di bilancio necessari, anche se dentro una prospettiva di sostenibilità finanziaria. In questo, la prossimità di intenti con il Piano del lavoro (Plan for Jobs per restare in inglese) che ha proposto la Cgil. La forza dell’elaborazione Cgil però sta proprio nel non concepire solo una misura di incentivazione e di breve periodo, ma di utilizzare la leva fiscale per compiere una redistribuzione utile a trovare le risorse necessarie a un piano straordinario per l’occupazione giovanile e femminile e, al contempo, sostenere la domanda e qualificare l’offerta attraverso un nuovo intervento pubblico in economia.
In questa prospettiva, rientra una riforma del mercato del lavoro che, a parità di risorse, riduca le forme di precarietà, aumenti la qualità del lavoro, estenda la rete di ammortizzatori sociali. Solo creando occupazione e qualità del lavoro si può uscire dalla crisi, scommettere sull’innovazione e su una crescita che porti con sé sviluppo. Solo attraverso nuove linee di politica industriale, fiscale e sociale si può risolvere la debolezza strutturale dell’economia italiana, che, per molti versi, ha portato il nostro paese ad anticipare e moltiplicare la crisi.