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L’economia della condivisione nasce negli anni dell’ultima grande crisi economica mondiale e si diffonde velocemente e prepotentemente, raggiungendo una capillarità della forza lavoro inimmaginabile solo pochi anni fa. Gli effetti della sharing economy sull’economia generale sono evidenti, soprattutto quando essa si scontra con le lacune legislative di quasi tutti i Paesi, o con alcuni mercati prerogativa di lavoratori iscritti ad albi professionali o possessori di licenze.
La seconda metà del 2015 e il 2016 sono caratterizzati dalle proteste contro alcune app della sharing economy. Il caso più noto è quello riguardante il contenzioso tra i tassisti e l’azienda californiana Uber: i primi protestano perché gli autisti di Uber non pagano le tasse, non seguono alcun corso di formazione per ottenere la licenza e non danno alcuna assicurazione a loro stessi e ai passeggeri. Solo per fare un esempio, in Italia, per poter guidare un taxi è necessario possedere una licenza, ottenibile tramite un concorso indetto dai Comuni (concorsi altamente infrequenti), la patente di guida B, un certificato di abilitazione professionale ottenibile in qualsiasi scuola guida e l’iscrizione obbligatoria all’albo professionale dei “conducenti”.
Se i servizi forniti dagli autisti di Uber, come è lecito ipotizzare, sono equiparabili a quelli forniti dai tassisti, è possibile comprendere la natura delle proteste: per iniziare a operare con Uber sono necessari semplicemente uno smartphone, una connessione Internet mobile, una patente di guida per automobili e un mezzo per il trasporto di persone. Nessuna licenza, nessuna iscrizione all’albo, nessuna formazione; tutto questo permette di spuntare prezzi più bassi per il servizio di trasporto, non dovendo sottostare alle tariffe stabilite dalle Regioni e dai Comuni. In merito alla soluzione della diatriba tra tassisti e autisti di Uber, va anche detto che ogni Paese sembra muoversi sulla questione in ordine sparso, nonostante le recenti linee guida promosse sul tema dall’Unione europea.
Per Bruxelles, i diversi Paesi aderenti all’Ue “dovranno stabilire soglie minime sotto cui un’attività economica possa essere considerata un’attività non professionale tra pari senza dover rispettare gli stessi requisiti applicabili a un fornitore di servizi che opera su base professionale. In questo modo, sarà possibile fissare un discrimine fra chi può fornire un servizio di sharing economy e chi non potrà più farlo: potrà essere il reddito che si ricava da queste attività, oppure il numero di giorni in cui si esercitano”.
Se di Uber – così come anche di Airbnb, il portale online di San Francisco specializzato in annunci per la ricerca di alloggi – si dibatte in tutto il mondo, meno conosciuti sono i modelli di business di altre società proprietarie di app che, per il solo fatto di non aver attaccato settori protetti da albi professionali o da forti associazioni di categoria, stanno vivendo periodi di forte crescita e diffusione, cambiando in modo inevitabile il mercato del lavoro e le possibilità di esternalizzazione per alcune aziende. Anche app per la vendita di fotografie, per la compilazione di sondaggi dietro corrispettivo, per attività di mistery shopping, per la visione di spot pubblicitari e per il compimento di microjob, seguono lo stesso modello di business: indipendenza fra le parti, app come piattaforma di incontro fra domanda e offerta, nessun obbligo fiscale nei confronti dei lavoratori, se non limitatamente alla ritenuta d’acconto sul pagamento di una prestazione occasionale.
Il tema dei risvolti sociali insiti nella sharing economy è stato accantonato nei primi anni di diffusione, ma ha avuto molta esposizione soprattutto riguardo alle tutele sociali e previdenziali. Tuttavia ancora poco si dice dei comportamenti discriminatori, ancora meno si dibatte sull’over-working, sui risvolti psicologici negativi della flessibilità oraria, sul possibile sfruttamento minorile in ambiti con pochi controlli, sul meccanismo di feedback così determinante per la propria “carriera” in queste app.
In assenza di precise normative, sia nazionali che a livello comunitario, è opportuno sottolineare i possibili scenari futuri in ambito lavorativo del settore: se verrà concesso a queste multinazionali (alcune app hanno raggiunto un numero tale di mercati in così pochi anni da far impallidire le imprese industriali) di continuare a operare con tanta autonomia rispetto ai propri addetti, facendo enormi passi indietro rispetto ai diritti minimi garantiti dai contratti nazionali per i lavoratori subordinati, il rischio è che il modello aziendale in questione possa estendersi anche in altri settori dell’economia, dall’industria all’agricoltura, dietro la richiesta di riduzione del costo del lavoro, per evitare licenziamenti o pratiche di outsourcing.
Desta preoccupazione la mancanza di intervento da parte del legislatore per contenere questo fenomeno di riduzione delle tutele sociali e previdenziali. Il modello di business di queste aziende, alle quali va riconosciuta un’indubbia spinta innovatrice e “occupazionale” in un periodo di forte crisi economica, non deve essere una scusa per negare diritti fondamentali a lavoratori che vedono in tali opportunità un rimedio alla mancanza di lavoro e, sovente, una fonte principale di reddito.