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Lo scorso 18 maggio la Fisac ha promosso, presso la sede nazionale della Cgil, un convegno dedicato al futuro dell’euro e dell’Ue, nel corso del quale è stato presentato il libro di Marcello Minenna “La moneta incompiuta” (Ediesse). Quello che segue è l’intervento svolto nell’occasione dall’autore
Si dice che una volta toccato il fondo non puoi che risalire.
A me capita di cominciare a scavare (Freak Antoni)
Gli elementi disgreganti dell’Eurozona: aspetti politici ed economico-finanziari
Qualche giorno fa Macron, nonostante nel suo programma elettorale avesse inserito l’esigenza di condividere i rischi all’interno della nostra area valutaria, ha dichiarato di essere contrario alla collettivizzazione dei debiti passati, definendola “una politica irresponsabile”. Poco dopo il suo portavoce ha espresso contrarietà agli eurobond. Qualche tempo prima il presidente Juncker aveva condannato l'idea della United Federal Europe. E ancora qualche tempo prima la cancelliera Merkel aveva affermato l’esigenza nel prossimo futuro di una Europa multi-speed. Non è detto che queste dichiarazioni siano pietre tombali al risk-sharing – vale a dire ciò di cui l’Eurozona ha bisogno – ma di sicuro, configurano un campo minato nel percorso verso una nuova e duratura Europa. A mio avviso rappresentano però bene l’incredibile involuzione della nostra area valutaria.
Nell’annus horribilis della crisi, e cioè il 2011, i paper che circolavano presentavano progettualità come gli eurobond o simili soluzioni per la condivisione dei rischi; sembrava che la crisi ci avrebbe portato diritti verso gli Stati Uniti d’Europa, e quindi verso un’Europa risk-shared. Invece non è andata così: l’Europa ha preso una pericolosa deriva a rischi segregati, cioè dove i rischi di debiti pubblici e privati vengono nazionalizzati nei vari Stati membri. Il tema è: a chi serve la nazionalizzazione dei rischi? Credo che serva a chi non ha fiducia nell’euro e in un’Europa con uno sviluppo armonico e a chi sta investendo invece in una soluzione egemonica degli equilibri tra i vari Stati membri. Quanto più i rischi sono nazionalizzati, infatti, tanto minori sono i danni collaterali, per quanto difficilmente ponderabili, di eventuali soluzioni consensuali di uscita dall’area valutaria unica.
Detto questo, vediamo quali sono le due grandi patologie della nostra unione monetaria, che non sono previste nei nostri Trattati, anzi a ben vedere sono in qualche maniera osteggiate. Innanzitutto un’area valutaria non può avere diciannove spread, cioè diciannove costi del denaro differenti, perché la merce (l’euro) è una sola e uno solo dovrebbe essere il suo costo. Se i costi sono differenziati si determinano divari di competitività nel sistema produttivo sia per le banche che per le imprese. Questi divari sono tanto maggiori quanto più il sistema è banco-centrico come appunto accade nell’Eurozona. È poi inammissibile che l’euroburocrazia non sappia distinguere tra “malinvestimenti” e “buoninvestimenti”; mi riferisco al fiscal compact, un accordo intergovernativo che tratta gli investimenti al pari delle spese improduttive e, quindi, alla fine, rende impossibile per gli Stati membri procedere a manovre fiscali anticicliche. Queste anomalie non sono scritte nei Trattati e da qui il falso problema di doverli cambiare per aggiustare le cose; nei Trattati sono infatti presenti i principi della condivisione dei rischi, dello sviluppo armonico e della convergenza dei cicli economici. Si tratta pertanto di interpretarli correttamente e, usando un anglicismo, implementarli per il benessere dell’Europa.
Regimi di cambi fissi nell’Europa
L’euro, da diversi anni, si comporta come un regime di cambi fissi; eppure è ancora in piedi e non dà segni di autonomo sgretolamento, come la lezione di Bretton Woods ci insegna. Consentitemi una metafora: un sistema di cambi fissi per i mercati finanziari è come un piccolo casinò per un ricco investitore. L’unico modo per evitare che il ricco investitore sbanchi il piccolo casinò, giocando al raddoppio, è non farlo entrare. Tornando alle dinamiche dell’Eurozona, nel 2007-2008 l’arrivo della crisi da oltreoceano aggiunge un ulteriore fattore di complessità, che rompe il compromesso implicito italo-tedesco tra finanza pubblica e industria manifatturiera, in quanto la germanizzazione dei tassi italiani si sgretola e lo spread la fa da padrone. Con lo spread il nostro debito pubblico e la spesa per interessi entrano in una nuova era, e quindi la permanenza nell’Eurozona diviene, mutuando un’espressione dalla medicina, uno stillicidio ematico.
Vi do una cifra che è impressionante: negli ultimi quattro anni il nostro sistema produttivo ha generato un minore gettito per lo Stato di circa 100 miliardi di euro tra mancate tasse delle imprese in crisi e deferred tax credits (crediti fiscali differiti) conseguenti alle svalutazioni dei non-performing loansde, cioè i crediti problematici accumulatisi nei bilanci bancari; quest’ultimo fenomeno è tutt’altro che irrilevante dato che oggi più del 10% del nostro sistema bancario è capitalizzato attraverso questi crediti d’imposta e rammento che su questa pratica contabile è in corso un’indagine della Commissione europea con l’ipotesi di violazione della disciplina degli aiuto di Stato. Se l’indagine dovesse terminare con esito sfavorevole si riaprirebbe (non che si sia mai chiusa) la stagione degli aumenti di capitale a spese del pubblico risparmio.
Qualcuno potrebbe sostenere che se queste sono le derive della nostra area valutaria allora perché non uscire come fu per il Serpente Monetario e per il Sistema Monetario Europeo? Il problema è che la metafora del ricco investitore e del piccolo casinò non opera per l’Eurozona. L’esistenza di una Banca Centrale unica con la capacità operativa della Bce non dà spazio ad attacchi speculativi con carattere di conclusività; non conviene. È infatti assai più conveniente creare tensioni sull’area valutaria, indurre, quindi, interventi straordinari della Bce, che generano prevedibilità per l’andamento delle principali variabili finanziarie ed effettuare “intermediazioni da spread”.
Mi spiego meglio: la Bce, con la sua operatività non convenzionale, interferisce con le normali dinamiche dei mercati finanziari definendo per gli operatori scenari maggiormente prevedibili. Questa maggiore prevedibilità consente a banche, assicurazioni e fondi di effettuare compravendite dei titoli di Stato dei Paesi membri per realizzare dei guadagni privi di rischio, proprio intorno all’andamento degli spread. Quest’operatività, l’“intermediazioni da spread”, appartiene alla famiglia degli arbitraggi e scommette de facto sulla divergenza delle curve dei tassi di interesse dei vari Paesi membri; si tratta quindi di divergence trades da non confondere con gli speculari convergence trades del triennio 1997-2000 che hanno costruito la curva unica dei tassi di interesse dell’euro.
I divergence trades trovano conferma a partire dal 2011 sui mercati dell’Eurozona in relazione ai vari programmi di prestiti straordinari alle banche (Ltro e TLtro) e di acquisto dei titoli di Stato (Smp e Qe) nonché in relazione al famoso whatever it takes del 2012 di Mario Draghi (che rammento non si è mai concretizzato in effettive operazioni sul mercato da parte della Bce) e purtroppo dominano ancora la scena sul mercato dei Govies. A meno di non voler veramente credere a chi sostiene che lo spread si sia strutturalmente ridimensionato grazie alle policies straordinarie della banca centrale. Il fenomeno dello spread è infatti ancora lì; studiando questa grandezza in termini di tassi di interesse reali (e, quindi, al netto dell’inflazione), si scopre che il 2016 non è stato poi così diverso dal 2011, l’annus horribilis. E d’altronde, perché gli operatori di mercato dovrebbero cambiare le valutazioni sulla rischiosità di uno Stato membro se nessuno si occupa di cambiare le regole di funzionamento dell’Eurozona in un’ottica risk-shared?
Una rinnovata dialettica politica per un nuovo set di interventi straordinari
Con queste condizioni al contorno bisogna identificare cosa fare. La mia opinione è che serva un drastico cambio di rotta. Nella dialettica politica si dovrebbe iniziare a bollare come euroscettiche dichiarazioni del tenore di quelle che ho citato all’inizio. Bisogna poi contrastare, o perlomeno non far passare inosservati, incontri bilaterali come quello dello scorso marzo tra la cancelliera Merkel e il presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump nel momento in cui vengono prevaricate le prerogative degli altri Stati membri. Una statistica può rendere meglio l’idea. Per l’80% della durata dell’incontro la Merkel ha discusso di politiche economiche dell’Eurozona e non di quelle tedesche: questa è un’evidente prevaricazione. Le istituzioni europee devono riprendere centralità e non farsi sorpassare a destra. Va contrastato il principio che “guida” chi ha la capital key più elevata nell’Eurosistema; perché finora purtroppo è andata così salvo rare eccezioni e non va bene. Alla politica non spetta solo un ripristino della dialettica istituzionale ma anche proporre delle soluzioni. Ci sono a mio avviso sette interventi mirati che si potrebbero porre in essere a trattati invariati, cioè sic stantibus rebus.
1) Le outright monetary transactions della Banca Centrale Europea, cioè lo “scudo anti spread”, dovrebbero stabilire nell’Eurozona un obiettivo zero spread a dodici mesi. Una dichiarazione del genere porterebbe gli investitori istituzionali a muovere la loro operatività nel senso dei convergence trades e ad azzerare lo spread nell’Eurozona, eliminando così quel fattore di divario di competitività dei sistemi produttivi che alimenta squilibri persistenti e crescenti fra i Paesi aderenti. Non è qualcosa di impossibile; come dicevo prima, è già successo nel triennio 1997-2000.
2) Il fiscal compact entro fine anno va ratificato nei trattati europei: l’occasione dovrebbe essere utilizzata per scomputare gli investimenti dal calcolo della spesa pubblica superando le quote risibili che oggi ci sono accordate dall’asse Berlino- Bruxelles. Se non ci fidiamo della classe dirigente dei singoli Stati membri, si può valutare l’eventuale istituzione di un Comitato Europeo che verifichi i “buoninvestimenti”, cioè quelli con moltiplicatore maggiore di uno. I “buoninvestimenti” vanno esclusi dall’algebra del fiscal compact. Segnalo, per inciso, che questi calcoli algebrici sono a mio avviso di dubbia legittimità dato che impostano la politica fiscale secondo una modalità pro-ciclica e, quindi, in piena contraddizione con i Trattati e con l’articolato stesso del fiscal compact, che invece definisce l’esigenza di politiche economiche anticicliche.
3) Il quantitative easing non dovrebbe concludersi senza un cambio di rotta verso il risk-sharing. Questo programma di acquisti di tioli – lo ricordo – è stato strutturato secondo una architettura a “rischi segretati”. La Banca Centrale Europea presta i soldi alle banche centrali nazionali, affinché queste comprino i titoli di Stato domestici (cioè ognuna quelli emessi dal proprio governo). Questa è un’anomalia che non a caso si riflette sul saldo Target 2: oltre 400 miliardi di euro di debiti dell’Italia verso l’Eurosistema (formalmente) ossia (sostanzialmente) verso la Germania. In un contesto normale il saldo del sistema di pagamenti interbancari di ciascun Paese dovrebbe essere prossimo allo zero. I numeri che osserviamo invece testimoniano l’errore architetturale del Qe definito così dopo le pressioni tedesche in Consiglio direttivo. Oggi la domanda è: come concludere il Qe? Semplice, riavvicinando il quantitative easing europeo a quello della Federal Reserve americana. I titoli di Stato delle banche centrali nazionali dovrebbero essere rilevati dalla Bce (non andare sul mercato) e i relativi prestiti andrebbero estinti.
4) Per i crediti deteriorati serve una bad bank europea. È vero quelli delle banche italiane ammontano a oltre trecento miliardi di euro, ma è altrettanto vero che il dato complessivo dell’Eurozona è anch’esso notevole: oltre mille miliardi. Peraltro, i nostri trecento, quasi per metà sono interessi larga parte dei quali anatocistici; infatti, come ricorderete, la sentenza che rende l’anatocismo illegale è del 2014; lo segnalo in quanto da questo punto di vista la situazione nell’Eurozona è eterogenea. A parte queste differenze – su cui prima o poi l’armonizzazione europea dovrebbe intervenire (come lo ha fatto per esempio sulla tempistica di svalutazione fiscale degli Npl portandola da 18 anni a 1, cosa che non è ci abbia proprio agevolato) – torniamo alla bad bank europea. Si tratta di ipotizzare un veicolo che vada ad assorbire questi crediti deteriorati – così da levare il tappo a questo lavandino dove ristagna la liquidità della Bce – e ripristinare così la capacità delle banche dell’Eurozona di sostenere il tessuto industriale e produttivo.
5) Il “Salva imprese”; sui crediti deteriorati serve una sincronizzazione della contabilità delle banche con quella delle imprese. Se un credito di cento euro nominali è iscritto nel bilancio della banca, in quanto svalutato, a trenta euro, andrebbe contabilizzato a trenta euro anche nel bilancio dell’impresa. Questo disincentiverebbe, tra l’altro, i fondi-avvoltoio dal comprare i crediti deteriorati delle nostre banche. Oltre alla sincronizzazione della partita doppia, servirebbe una garanzia dello Stato su questi crediti, da pagare a prezzo di mercato per superare le limitazioni europee sugli aiuti di Stato. La garanzia trasformerebbe il credito in un Btp sintetico, risolverebbe i problemi di assorbimento di capitale che i crediti deteriorati determinano per le banche e cancellerebbe l’indicazione di cattivo pagatore nella “Centrale dei Rischi”, consentendo all’impresa di riaccedere al credito. Con un po’ di liquidità le imprese potrebbero riuscire a lasciarsi la crisi alle spalle e evitare di finire nella lista nera delle aziende fallite che oggi conta già 45.000 unità; sempre che sia tra gli obiettivi dell’Eurozona riavviare il nostro sistema produttivo ed una sana relazione tra banca ed impresa.
6) Il Fondo europeo di tutela dei depositi; se non ricordo male l’Unione Bancaria aveva tre pilastri. I due che ci facevano male sono stati realizzati cioè il bail-in e la vigilanza unica europea. E il terzo – cioè il fondo di tutela dei depositi – a che punto è? Eppure è un pezzo di un accordo in essere. La domanda è evidentemente retorica. Sappiamo tutti che è bloccato dal veto tedesco; veto che è veramente inammissibile.
7) Prestiti agevolati e targeted della Bce (T-Ltro) per combattere i differenziali di inflazione all’interno dell’Eurozona, ovvero che vadano alle imprese e alle famiglie dei Paesi dove l’inflazione è più bassa. L’Eurozona non può consentirsi il rischio che l’obiettivo di inflazione al 2% della Bce possa essere interpretato come dato medio degli Stati membri, magari pure ponderato in base al peso degli stessi. Si potrebbe, infatti, arrivare a contraddizioni per cui con una Germania al 3% si potrebbero trascurare scenari deflattivi in altri Stati membri. Escluderei, tra l’altro, che i Padri fondatori dell’Eurozona immaginassero simili scenari. I T-Ltro qualificano un importante intervento di convergenza architetturale per la nostra area valutaria in quanto – una volta portato a casa l’obiettivo di azzerare lo spread – non possiamo dimenticare che anche il differenziale di inflazione, attraverso la metrica del tasso di cambio reale, altera la competitività dei sistemi produttivi.
Queste proposte sono veramente quelle che a me piacerebbe chiamare il “minimo sindacale” per tenere in piedi la nostra architettura valutaria. Altrimenti, e a me spiace dirlo perché sono un convinto assertore degli Stati Uniti d’Europa, il rischio è che ci dobbiamo preparare rapidamente a un piano B.
Marcello Minenna è docente di Finanza matematica alla Bocconi di Milano