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“1946-2016: 70 anni di voto, 70 anni di democrazia, dal voto alle donne ai nuovi diritti, un valore per tutte e tutti”. È il titolo del convegno che si tiene oggi (14 aprile) a Bologna, organizzato dall’Osservatorio pari opportunità dell’Auser, in collaborazione con il coordinamento donne dello Spi. Nell’ambito dell’iniziativa, in cui intervengono Ivan Pedretti, Maurizio Lunghi, Vilma Nicolini, Franca Cherchi, Aude Pacchioni e Rita Innocenti, è prevista una tavola rotonda con la partecipazione di Susanna Camusso, Lucia Rossi, Enzo Costa, Simona Lembi, Mimma Sprizzi, Giulia Rondolini e Tiziana Barbolini
Nel 1946 le italiane si recarono per la prima volta alle urne, dopo che il 1 febbraio 1945 – in un’Italia ancora in guerra e con il Nord del Paese occupato dai nazifascisti – un provvedimento del governo Bonomi aveva sancito la conquista del voto femminile e un decreto del 10 marzo 1946 il diritto ad essere elette. Questa data, di cui oggi ricorre il settantesimo, costituisce un passaggio chiave per l’ingresso delle donne nelle vita democratica del Paese, un “evento storico” capace di produrre un cambiamento epocale nella stessa storia della Repubblica aprendo la strada ad iniziative che nei decenni successivi avrebbero garantito l’accesso delle donne a molte professioni, ma anche al riconoscimento di specifici diritti legati alla condizione femminile.
“Bisognava attingere il vertice dell’orrore e della disperazione, bisognava che l’uomo si sentisse umiliato come non mai attraverso i millenni nella sua incapacità ad arginare la barbarie, perché potesse, povero uomo, persuadersi a chiedere l’ausilio della compagna, ammettere che questa abbia capacità d’intelletto tali da tentar con lui l’opera di salvezza e di rinascita”. Così commentava la scrittrice Sibilla Aleramo sulle pagine dell’Unità, nel febbraio 1946, la tarda conquista del suffragio femminile in Italia rispetto alle altre democrazie parlamentari, punto di approdo non solo della lunga e strenue battaglia condotta dal movimento femminista in età liberale, ma anche del ruolo svolto dalle donne nella Resistenza.
Se alta fu la percentuale delle elettrici e delle donne elette nelle elezioni amministrative del marzo aprile 1946, che coinvolsero oltre seimila comuni, andando così a sfatare il pregiudizio sulla loro presunta indifferenza e incapacità, il 2 giugno dello stesso anno milioni di donne in tutta Italia, nelle grandi città industriali del Nord come in quelle del Centro Sud, sostarono composte in lunghe file davanti ai seggi elettorali per esprimere la propria volontà politica sul referendum Monarchia o Repubblica e per eleggere i membri dell’Assemblea costituente.
Le donne elette alla Costituente furono 21 su un totale di 556 deputati (il 3,7%), di cui 9 nelle liste del Pci, altrettante in quelle della Dc, 2 nel partito socialista ed una nell’Uomo qualunque. Di queste 5 presero parte all’Assemblea dei 75 incaricata di redigere la Carta costituzionale che entrerà in vigore nel 1948, tra cui figurava Teresa Noce, futura Segretaria generale dei tessili.
L’importanza e la novità rappresentata dal conseguimento del suffragio femminile attivo e passivo e i suoi riflessi nel panorama politico e culturale è stata a lungo trascurata dalla storiografia e dalla stessa pubblicistica, essa tuttavia ha rappresentato la rottura di una concezione del diritto di cittadinanza quale territorio maschile, fondato su un concetto «di uguaglianza improntata al principio dell’omologazione», incentrata sul «principio astratto dell’universalismo dei diritti» che nascondeva, invece, una connotazione sessuata (Bonacchi, Groppi, 1993, p. 3). Si ridefiniva così il paradigma stesso della cittadinanza e il concetto di uguaglianza per affermare i diritti degli uomini e delle donne nel quadro dell’“equivalenza” più che della semplice uguaglianza, mentre veniva messa in discussione la tradizionale divisione tra pubblico e privato facendo della maternità e del lavoro di cura le basi per l’accesso alla cittadinanza e per superare la loro tradizionale esclusione. Infatti, come sottolineato da Patrizia Gabrielli, sin dalle origini della Repubblica nella conquista della cittadinanza femminile “l’obiettivo era di coniugare ai diritti politici anche quelli sociali, nella convinzione che la piena acquisizione dei primi non fosse nel caso delle donne indipendente dai secondi”. La battaglia svolta dalle costituenti, da questo punto di vista, divenne centrale nell’avviare quel lungo processo di affermazione dei “diritti di cittadinanza” delle donne e trovò un forte ancoraggio, politico e culturale, nelle coeve esperienze che maturano nel sindacato e nelle sue rivendicazioni.
Nella Costituente centrale fu il ruolo delle donne nel dibattito sull’uguaglianza tra i sessi nella sfera pubblica, a partire dalla ammissione ai pubblici uffici senza distinzione di sesso (art. 51), ai diritti di parità nel lavoro, così come nella battaglia sull’articolo 106 della Costituzione sull’accesso alla magistratura, che però verrà sanzionato solo da una legge nel 1963; inoltre, altrettanto importante si rivelò la battaglia intrapresa a partire dai lavori della Commissione dei 75 da parte di alcune costituenti, tra cui Teresa Noce, sul pieno riconoscimento da parte dello Stato della “funzione sociale” della maternità e in quanto tale il suo diritto alla tutela.
Tuttavia, se nell’articolo 37 della Costituzione, comma I, si stabilisce che «la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di salario, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale, adeguata protezione», la Costituzione, nel momento in cui proclama anche per le donne il diritto al lavoro e riconosce il principio della parità salariale, limita questi solenni pronunciamenti richiamando l’«essenziale funzione familiare» della donna; pertanto, come sottolinea Annarita Buttafuoco, «ancora una volta le donne vengono collocate nel privato»; la loro tradizionale debole identificazione come lavoratrici non viene confermata e di conseguenza «se ne rende debole e precaria anche l’idea di cittadine».
Un’impostazione, questa, contro cui si schierarono negli anni dell’immediato dopoguerra le donne del sindacato, a partire dalla Commissione femminile a importanti categorie come la Fiot. Infatti, il tema del lavoro rappresentò il nodo centrale di una nuova identità femminile, laddove le donne – scriveva Teresa Noce nel settembre 1945 – vanno a lavorare non solo perché costrette dall’indigenza, ma anche per rispondere ad altre necessità: “affermare la propria indipendenza economica e la propria capacità produttiva, tecnica, culturale. Necessità di uscire in parte dall’ambiente ristretto della cucina e della casa, per partecipare anch’esse alla vita sociale e politica, attraverso il lavoro e le sue lotte, attraverso il contatto con altri esseri umani, attraverso la conoscenza di altri problemi di carattere più vasto e generale”. I termini dell’azione sindacale nel quadro delle politiche rivendicative femminili in questo frangente riguardavano, infatti, la parità salariale e la tutela. Iniziative che si tradussero dapprima nell’approvazione della legge sulla tutela della maternità (1950) e, a partire dalla seconda metà degli anni cinquanta, nella mobilitazione che porterà alla firma dell’accordo interconfederale sulla parità salariale nel 1960.
Un accordo quest’ultimo che segna il cambiamento qualitativo della politica contrattuale nel sindacato che, benché nei primi due congressi avesse enunciato i principi dell’emancipazione attraverso il lavoro e della parità di diritti e di salario, non aveva dato ad essi pratica applicazione. Del 1963 sono invece le leggi sul divieto di licenziamento per matrimonio e sul riconoscimento della pensione alle casalinghe, con cui si ha un’implicita ammissione del valore economico del lavoro domestico e si afferma il parziale messaggio di messa in discussione di un modello di emancipazione esclusivamente legato alla partecipazione al mercato del lavoro. Conseguita la parità alla fine degli anni sessanta, almeno sul piano legislativo, esplose il movimento femminista per dare alla parità giuridica una effettiva corrispondenza sociale, ancora non del tutto realizzata.
Furono questi gli anni, dopo l’impegno nell’approvazione delle leggi istitutive delle scuole materne statali del 1970 e degli asili comunali del 1971, delle battaglie per la conquista dei diritti civili sanciti dalle leggi sul divorzio (1970), sulla istituzione dei consultori (1975), la legalizzazione dell’interruzione volontaria della gravidanza (1978) e la riforma del diritto di famiglia (1975) con cui si chiuse sul piano normativo il ciclo della parità, apertosi alla fine del secondo conflitto mondiale, e si aprì la stagione della “differenza”. A settant’anni di distanza, seppure in una società in cui a fronte della stessa crisi sono cambiati ancora una volta il lavoro e la famiglia, la quotidianità e il tempo libero, appaiono ancora di grande attualità le testimonianze delle Costituenti e la stessa conquista della parità da declinare in tutte le sue molteplici forme e contenuti, laddove accanto all’importante percorso di conquiste dei diritti politici, civili e sociali delle donne per la realizzazione di una cittadinanza al femminile, la Repubblica ha faticato a riconoscere alle donne il diritto di rappresentarla, facendo della democrazia italiana una “democrazia incompiuta” (Gabrielli, 2009, p. 242).
Maria Paola Del Rossi è docente di Storia del movimento sindacale all'Università di Teramo