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Ansaldo, Breda Ferroviaria, ora Pirelli. Per non dire delle acquisizioni nel mondo del made in Italy. È ormai lunga la lista delle aziende storiche italiane che vengono rilevate da gruppi esteri, in cambio di garanzie per gli azionisti e i manager, ma senza alcun impegno per il paese. Anche per quanto riguarda la Fiat, non è mai stato del tutto chiaro chi abbia acquisito chi. Di certo i centri di decisione strategica di questi nuovi grandi gruppi è difficile che restino in Italia ed è arduo immaginare che quelle imprese conservino in qualche modo la loro sensibilità alle esigenze del paese. Lo stesso destino potrebbe prima o poi toccare ai loro centri di innovazione, ai luoghi della ricerca e alle produzioni più qualificate. Come abbiamo iniziato a vedere già qualche decennio fa nell’industria petrolchimica e farmaceutica.
Da quando Letta avviò la campagna per l’attrazione di investimenti esteri sul nostro territorio, abbiamo denunciato una complice ambiguità del governo in questi episodi di marketing industriale. Continuiamo oggi, a dispetto di chi fa mera propaganda. Un conto sono gli investimenti che creano nuove attività produttive e buona occupazione, partecipando e potenziando la crescita delle imprese e dei settori più innovativi per competere nel mercato globale, tutt’altra cosa sono le acquisizioni alle quali stiamo assistendo, nell’indifferenza di chi ci amministra. Tra un paese che attira investimenti esteri perché è produttivo e capace di innovazione e un paese che mette il proprio apparato produttivo in vendita al miglior offerente passa una distanza enorme. La stessa che c’è tra investire per rinnovare la propria casa e decidere di venderla nella speranza di poterne restare inquilini.
È del tutto ovvio che se i nostri brand nazionali sono appetibili è perché essi hanno valore. E che nella globalizzazione non ha senso pensare di bloccare le risorse finanziarie entro confini nazionali. Ma non stiamo assistendo ad altrettanti investimenti italiani all’estero e a un fenomeno speculare di partecipazione e acquisizione nazionale di importanti imprese straniere. Le nostre industrie sono comprate e basta (anche se a buon prezzo), i pacchetti azionari di quelle estere non sono in vendita per noi. Basti pensare ai tanti ostacoli frapposti a Finmeccanica per l’ingresso (certo tardivo e quasi di malavoglia) nel consorzio Airbus. In Francia, in Germania non sarebbe ammissibile e permesso ciò che da noi accade quotidianamente, nell’indifferenza e impotenza generale, nell’assenza di qualsiasi strumento non solo di tutela del settore industriale, ma nemmeno di riconoscimento e sostegno delle nostre attività più innovative e performanti.
Nessuno vuole tornare all’Iri, ma la scarsa attenzione al patrimonio industriale e la mancanza assoluta di una politica di indirizzo in questo campo segnalano un difetto grave di comprensione e di iniziativa da parte del governo. Lo dice il sindacato e lo dice anche un imprenditore liberale come Romiti, a testimonianza che gli slogan sulle “magnifiche sorti e progressive” del sistema Italia non riescono più a nascondere la triste verità della deindustrializzazione alla quale ci siamo votati passivamente. Anche perché le grandi acquisizioni che compaiono sui giornali rischiano di essere la punta di un iceberg di ristrutturazioni e ridimensionamenti a saldo negativo che hanno già indebolito la capacità industriale italiana. Su questo tema è urgente ricostruire una fotografia degli effetti della crisi che sia in grado di individuare i settori che si sono contratti o scomparsi e le potenzialità che restano, su cui far leva per una crescita solida, innovativa e diffusa.
Toccherebbe al ministero dello Sviluppo economico compiere questa analisi e decidere quali indirizzi fornire al sistema industriale italiano. Ma quello che anche in epoche recenti è stato un luogo di governo degli investimenti e dell’industrializzazione del paese ora non è più capace di guardare al futuro e si è riconvertito in ministero delle Crisi. Sarà quanto mai opportuno che siano almeno le organizzazioni sindacali a ricostruire, unitariamente, la portata delle trasformazioni accadute in questi anni e rimisurare, con oggettività, il valore residuo del nostro patrimonio industriale, al fine di basare le politiche di rilancio sulle risorse esistenti, in luogo della retorica nazionale sulla ripresa già in atto.
Ci vuole una nuova politica industriale, questo ormai lo sostengono studiosi di diversa provenienza culturale e politica. Ma cosa significa concretamente una “nuova politica industriale”? Noi pensiamo prima di tutto al fatto che il governo abbia la responsabilità di definire gli indirizzi futuri del paese, nei diversi ambiti industriali e di servizio, in un’ottica di riunificazione nazionale che comprenda il Mezzogiorno, devastato dalla crisi attuale molto più che la media delle altre regioni. E che per questo vadano pensati strumenti e risorse nuove, ben oltre le dimensioni e le tipologie del “Piano Juncker”. Se da un lato è difficile immaginare di poter ricostruire un’architettura di “piani di settore”, definiti a Roma una volta per tutte e applicabili all’intero paese, come se si trattasse di un’entità (produttiva, di servizi e di infrastrutture) omogenea, dall’altro lato è del tutto evidente che interventi di defiscalizzazione a pioggia sulle imprese non saranno in grado di rilanciare la domanda interna, che è il vero “piombo nelle ali” della ripresa.
Tantomeno, la scintilla dello sviluppo potrà essere rappresentata dall’ulteriore svalorizzazione del lavoro, come abbiamo più volte sostenuto. Sono necessarie invece coraggiose e nuove politiche industriali, che – a partire dalle tante arretratezze accumulate e dalla domanda di innovazione (questa sì diffusa ovunque per settori e aree territoriali) – siano in grado di mobilitare le imprese e coinvolgere i grandi complessi industriali (italiani e multinazionali) come apripista e supporto al rilancio del tessuto imprenditoriale più diffuso.
*Segretario confederale della Cgil