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Finanziamenti e incentivi sono fondamentali per stimolare un settore in crescita dalle molte potenzialità. Ma sta ormai divenendo chiaro a molti che senza regole si va poco lontano. La chiusura di Uber Pop ha infatti lasciato il segno. A maggio la sentenza del Tribunale di Milano ha bloccato la piattaforma di passaggi a pagamento tra privati, il cui servizio è simile a quello dei taxi, e da allora altre associazioni, dopo quella dei tassisti, hanno alzato ancora di più la voce, come Federalberghi contro Airbnb e Fipe-Confcormmercio contro Gnammo.
E così oggi gli operatori della sharing economy non vedono più le richieste di regolamentazione come qualcosa di fronte cui girare la testa. Necessità che si è evidenziata durante la manifestazione Sharitaly, a Milano, evento dedicato alla sharing economy, alle sue aziende e start up. Il timore è che se è stato bloccato un operatore “forte” come Uber Pop, gli altri hanno poche speranze di resistere. Ecco allora arrivare da più parti la richiesta di una regolamentazione unica per tutte le attività di sharing, con una legge ma soprattutto con uno “sharing economy provider”: una proposta concreta avanzata da Gian Luca Ranno, uno dei tre fondatori di Gnammo, start up italiana di social eating con cui organizzare cene a pagamento, a casa propria, per sconosciuti. “Il provider sarebbe una piattaforma unica, gestita a livello statale, in cui tutte le piattaforme si dovrebbero accreditare. In questa “sede” chi partecipa a uno o più siti (host di Airbnb, cuochi di Gnammo, guidatori di Uber e Blablacar...) dovrebbe indicare tutti i propri redditi derivanti da queste attività – spiega Ranno – Si potranno così gestire le posizioni fiscali di ciascuno, partendo dai codici fiscali, e monitorare le attività di ogni utente, assicurandosi che non avvengano illeciti. Al momento è solo un'idea, ma ci stiamo lavorando e già sono stati individuati alcuni interlocutori a cui sottoporla per svilupparla”.
Oltre ai tassisti, sollevatisi in massa contro Uber, anche gli “home restaurant” di Gnammo & Co non sono passati inosservati agli esercenti tradizionali. L'associazione Fipe (Federazione Italiana Pubblici Esercizi) l'ha definita attività “fuorilegge” e ha richiesto ufficialmente l'intervento dei Nas per verificare il rispetto delle norme igieniche Haccp. Richieste accolte dal Ministero dello sviluppo economico, che sta intervenendo su singoli casi, come nel caso di un titolare di home restaurant, ora costretto a presentare la Scia (Segnalazione certificata di inizio di attività) dal Comune di residenza e avere tutte le autorizzazioni del caso. Gnammo, in mancanza di concreti strumenti per la regolamentazione sulle attività della sharing economy, è allora intervenuta sul codice etico, dividendo il concetto di social eating da quello di home restaurant. Nella prima categoria rientra chi percepisce redditi fino a 5.000 euro all’anno, allineandosi alla normativa che regola la prestazione di lavoro occasionale: fino a quella cifra uno gnammer non è tenuto ad adeguarsi alla normativa Haccp e rientra più propriamente nello spirito dello sharing peer to peer.
Chi guadagna più di 5.000 euro fa invece attività di “home restaurant” e deve avere sia l’Haccp sia la Scia. Ovviamente queste sono regolamentazioni interne non vincolanti, che però tentano di segnare la strada per una concreta legislazione. Infatti la distinzione tra attività occasionale e lavoro vero e proprio era stata anche proposta in un documento di alcuni mesi fa dell'Autorità dei Trasporti, che proponeva di permettere l’attività di car pooling a pagamento, come Uber Pop, a chi non superasse le 15 ore di guida settimanali. Segno che il problema esiste e interessa più settori, non ultimo quello alberghiero, con piattaforme come Airbnb in crescita costante ma senza controllo. “Il sommerso nel turismo è giunto a livelli di guardia, che generano una minor sicurezza sociale e il dilagare indiscriminato dell'evasione fiscale e del lavoro nero" denuncia il presidente di Federalberghi, Bernabò Bocca, che insieme ad altre associazioni europee (già la Francia aveva sollevato il caso contro Airbnb) chiede regole e l'istituzione di controlli per combattere l'illegalità in uno dei settori più importanti del paese.
Perché come esistono persone che affittano una camera del proprio appartamento per integrare il reddito familiare, c'è anche chi, ben il 57%, gestisce più di una semplice stanza: come “Daniel”, con 527 alloggi, e “Bettina”, con 420 proprietà sparse tra Milano, Roma e Firenze. Casi eclatanti che dimostrano come si eludano le norme poste a tutela della salute e sicurezza dei clienti, traditi anche dalla promessa di vivere un'esperienza unica. Stringente è quindi la necessità di regole, che tutelino tutti e permettono a questa grande risorsa, la sharing economy, di divenire un mezzo concreto per contribuire a risollevare le sorti del paese.