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Premi di risultato, da contrattare a livello decentrato; welfare aziendale, da negoziare anch’esso a livello aziendale o territoriale; coinvolgimento dei lavoratori, da svolgersi in maniera paritetica e riguardante l’organizzazione del lavoro. Il tutto condito da misure fiscali di sostegno stabilite per legge. Sono questi i tre assi su cui ruotano le misure fiscali di favore per aziende e lavoratori disciplinate all’interno dell’ultima Legge di stabilità, approvata a fine dicembre 2015, e valide per il 2016. Che spazio c’è per la contrattazione collettiva? La legge sul punto apre al riconoscimento di premi di risultato cui applicare un’aliquota fiscale agevolata al 10 per cento e sostitutiva dell’Irpef e delle addizionali regionale e comunale, o in alternativa la possibilità di convertire il premio in tutto o in parte in misure di welfare aziendale integralmente detassate. Condizione per l’introduzione di queste misure è che siano sottoscritte in accordi collettivi a livello decentrato, di tipo aziendale o territoriale. Il beneficio fiscale è esteso se vi sono forme di coinvolgimento dei lavoratori.
Vi sono limiti soggettivi e d’importo al fine dell’operatività delle misure: le intese devono riguardare i titolari di reddito di lavoro dipendente non superiore ai 50 mila euro annui, nella misura di importo complessivo che non può superare i 2 mila euro, cifra che può raggiungere i 2.500 euro laddove vi sia un coinvolgimento paritetico dei lavoratori nell’organizzazione del lavoro. Questo in estrema sintesi. In realtà, tali incentivi non costituiscono misure inedite: misure di sostegno fiscale e/o contributivo al riconoscimento della retribuzione di risultato sono state introdotte già anni or sono, e così anche la diffusione di piani di welfare sono già presenti in realtà aziendali di medie e grandi dimensioni che hanno avuto e stanno avendo un’eco sui mezzi di comunicazione (tra le più recenti, il contratto integrativo sottoscritto unitariamente in Fincantieri).
In questa cornice, le misure introdotte per il 2016 mirano a essere strutturali, non più sperimentali anno per anno, e per di più si cerca di rendere più stringente l’incentivo fiscale tramite la previsione di basare i premi di risultato al raggiungimento di obiettivi che siano realmente misurabili, effettivamente incrementali e obiettivamente verificabili. Infatti, i contratti collettivi, si legge nel decreto ministeriale del marzo 2016, “devono prevedere criteri di misurazione e verifica degli incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza e innovazione, che possono consistere nell’aumento della produzione o in risparmi dei fattori produttivi ovvero nel miglioramento della qualità dei prodotti e dei processi, anche attraverso la riorganizzazione dell’orario di lavoro non straordinario”; e finanche si parla, nel medesimo decreto, di riconoscimento della detassazione per “il ricorso al lavoro agile quale modalità flessibile di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato, rispetto ad un periodo congruo definito dall’accordo, il cui raggiungimento sia verificabile in modo obiettivo attraverso il riscontro di indicatori numerici o di altro genere appositamente individuati”.
In tali passaggi del decreto c’è forse racchiuso l’aspetto che svela la parte più delicata delle misure di promozione di tale contrattazione “incentivata”, da cui si ricavano alcuni possibili quesiti che sorgono dalla lettura complessiva dei testi: come si stabilisce la reale incrementalità, obiettività e misurabilità dei risultati che ci si prefigge? In che modo si può verificare che via sia un coinvolgimento effettivo dei lavoratori? Quale, in generale, è stato ed è l’utilizzo di questo tipo di contrattazione e quali sono i trend individuabili e censibili a livello territoriale?
Le domande si prestano a rimanere per ora senza risposte sicure, poiché un bilancio forse è ancora prematuro da compiere, ma è pur vero che, da quello che si può leggere sulla stampa, vi è l’intenzione del governo di aumentare, nella prossima Legge di stabilità, le cifre oggetto di detassazione, e contestualmente ampliare la platea dei titolari di reddito. Il punto però non è (solo) aumentare la quantità in termini di platea di beneficiari, sostegno fiscale e, più in generale, favorire questo tipo di contrattazione, ma semmai cogliere, analizzare e valutare la qualità dei prodotti negoziali oggetto di confronto e sottoscrizione dalle parti in sede aziendale o territoriale, soprattutto in considerazione del fatto che risorse pubbliche sono state messe a disposizione.
Al momento non resta che fare i conti con i dati ufficiali indicati del ministero del Lavoro e delle politiche sociali che sono stati pubblicati a metà settembre 2016, in seguito all’avvenuto deposito delle intese presso le Direzioni territoriali del lavoro competenti: su un totale di 15.078 dichiarazioni di conformità relative a intese aziendali depositate, regioni come Lombardia, Emilia Romagna, Veneto e Piemonte sono in testa alla classifica, mentre le regioni del Sud, in particolare Calabria, Sicilia e Sardegna, risultano i fanalino di coda. Meno diffusa la contrattazione territoriale. Non era difficile prevedere tale esito.
In realtà, bisognerebbe andare più a fondo, verificando nei singoli contesti territoriali come sono state siglate le intese, che obiettivi sono fissati e con quali modalità il coinvolgimento della partecipazione è stato compiuto, nella consapevolezza che con tale misura c’è il rischio di allargare ancor più la forbice dell’equità sociale: si va a favorire in via esclusiva e non inclusiva quel lavoro dipendente che sta già relativamente meglio rispetto a chi è fuori dal mercato o comunque con un impiego non dipendente. In questo senso, l’intervento risulta significativo per il ruolo delle organizzazioni sindacali, sempre più chiamate a fare i conti con la complessità insita della materia, non solo per i tavoli di negoziazione: questo tipo di misure richiede una competenza trasversale, che spazia dagli aspetti tributari, a quelli economico-aziendali, fino a quelli giuridici e delle relazioni sindacali.
Il monitoraggio della contrattazione compiuto attraverso il deposito telematico delle intese presso le Direzioni territoriali è un aspetto che va considerato opportuno, perché consente di avere un quadro complessivo della contrattazione in atto, ma sicuramente non basta. Ma è solo una luce. Si staglia un’ombra, forse più percepibile nel lungo periodo che nell’immediato, rispetto a questa prospettiva di consolidamento del secondo welfare che comunque deve rimanere integrativo e non sostitutivo del sistema sociale pubblico (così Balandi G.G., Non tutto è oro quel che è Welfare aziendale, in www.rivistailmulino.it, 11 novembre 2015): se infatti si vuole favorire tramite la contrattazione la welfarizzazione dei premi di risultato, rendendo ancor più conveniente fiscalmente i piani di welfare rispetto ai premi stessi, quale è il confine oltre il quale il primo welfare risulta scavalcato dal secondo welfare?
Alberto Mattei è assegnista di ricerca in Diritto del lavoro presso l'Università di Verona