Cosa altro c’è da vedere? Quale tassello ancora manca per chiamare la realtà con il suo vero nome? Fino a quando si intende giocare con le maschere dell’ipocrisia? La deriva, se non in un senso autoritario, in una direzione di “caporalismo” avrebbe detto Gramsci, non è un rischio ipotetico, è una tendenza in atto. Visibile, trasparente, inquietante. Non rimane che prenderne consapevolezza e contrastarla con tutti i mezzi dell’ordinamento costituzionale.

Quando – in merito alla discussione sulla nuova legge elettorale, meglio conosciuta come Italicum – poco più della metà del partito che ha ottenuto il 25 per cento dei voti (e intascato la maggioranza assoluta dei seggi) non arretra dinanzi alle resistenze e ai dubbi espressi da formazioni che hanno raccolto almeno il 60 per cento del corpo elettorale, e abbandonano la commissione Affari costituzionali in segno di protesta dopo la rimozione in un sol colpo di 10 deputati della minoranza Pd, si lambisce una crisi di legittimità, che scuote i pilastri dell’ordinamento.

È vero che il regolamento parlamentare non vieta la sostituzione per motivi funzionali, competenziali, congiunturali di deputati con altri membri designati dal gruppo di appartenenza (che peraltro, nel caso specifico, disattende il mandato elettorale ricevuto, rigettando il programma del 2013 in favore di altre risoluzioni mai presentate dinanzi al corpo elettorale). Ma non può essere il disaccordo su temi politicamente sensibili, e quindi il richiamo al vincolo di mandato, la ragione disciplinare per la deposizione dei 10.

La questione ancora più scottante è preliminare rispetto alle esclusioni di massa dei “dissenzienti” (“ribelli”, li chiama la grande stampa, che pensano di non tradire il programma elettorale accettato prima del voto). Ed è il nodo costituito dall’entità abnorme del gruppo Pd, la cui volontà intende tramutarsi in legge, che è da considerarsi, secondo un pronunciamento della Consulta, illegittima.

E allora si presenta il caso di scuola: un’esigua minoranza, in virtù di una illegittima regola elettorale, approfitta dei numeri illeciti a disposizione per esercitare un plusvalore legale e prefabbricare una nuova tecnica elettorale funzionale alla riconquista della maggioranza. Che proprio questo sia il punto, e cioè l’uso legale dei poteri nelle mani di una maggioranza illegittima, lo conferma anche l’ipotesi ventilata di ricorrere al voto di fiducia per l’approvazione della legge.

La conseguenza di questo atto della fiducia è che la regola del gioco si identifica con la sopravvivenza dell’esecutivo e, dunque, si disegna una partitizzazione della tecnica elettorale che poco ha a che vedere con uno Stato costituzionale di diritto. Il Pd non solo evita di ripristinare le condizioni della correttezza delle regole del gioco, così come tratteggiato dalla sentenza della Corte costituzionale, ma compie un ulteriore atto di forza e con il 25 per cento dei voti impone la tecnica che più assicura le aspettative di vittoria del leader del momento. Non va bene.