Una riforma della contrattazione senza il consenso della Cgil che secondo il ministro Renato Brunetta “ha una portata storica… perché sostituisce per la prima volta il tradizionale approccio conflittuale nel sistema di relazioni industriali con quello cooperativo”. Più esplicitamente il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi: “Credo che la Cgil soffra di un blocco ideologico che pesa soprattutto in una fase post-ideologica che vuol dire anche passare dal conflitto distributivo a una distribuzione della ricchezza attraverso la partecipazione”. Come battere l’ideologismo della Cgil? “In generale credo che si debbano superare tutte le forme di democrazia diretta. Ormai ci dobbiamo confrontare con paesi che hanno processi decisionali velocissimi. Penso al Brasile, alla Cina, alla Russia”. In altre parole la riforma della contrattazione non riguarda chi lavora.
Isolare la Cgil, questo l’obiettivo politico da lungo perseguito che, nei primi commenti, riempie di soddisfazione i protagonisti dell’impresa. Mentre il paese attende stupito almeno i segnali di una risposta alla crisi che in ogni giorno appare più grave. E mentre si avvertono fratture sempre più allarmanti nel rapporto tra società e istituzioni, per l’incapacità di arrivare ad un assetto accettabile del sistema politico, con i primi avvertimenti di disaffezione dell’elettorato, con un’inquietante disgregazione della stessa società civile attraversata da malcostume e corruzione per non dire di buona parte del Mezzogiorno sottratto allo Stato, in mano alla malavita.
La crisi economica colpisce un paese già provato: un Parlamento umiliato nella sua funzione legislativa, un governo il cui premier continua a confondere il suo ruolo costituzionale con il potere che si attribuisce grazie ai sondaggi sugli umori (sempre meno favorevoli) dei cittadini. E ora una divisione dei sindacati che indebolisce ulteriormente quella parte della società più esposta alla crisi.
La crisi, esplosa negli Usa, secondo tutti i commentatori, non si configura come una caduta ciclica del sistema economico ma come crollo di un modello di sviluppo fondato sull’ideologia di un mercato capace di regolarsi autonomamente a fronte di uno “Stato minimo”, e cioè, come amava dire la Thatcher, dove “la società non esiste”: politiche sociali al minimo, cancellazione del sindacato. Le Borse non si esaltano più alla notizia di massicci licenziamenti ma i nostri uomini di governo, come pugili suonati, continuano a menare colpi come se nulla fosse successo, e devono aver trovato bizzarre le supponenti e tardive analisi del ministro Tremonti contro il “mercatismo” e ritenuto più appagante la vecchia strada piuttosto che quella da lui indicata: Dio, Patria e Famiglia.
Tutti gli analisti hanno indicato la causa della crisi nell’espansione di un’economia finanziaria sempre più affidata a tecniche finanziarie spregiudicate, se non addirittura a sconcertanti catene di Sant’Antonio: un volume di capitali, trattato fuori dai canali regolati, cresciuto esponenzialmente, di cui è sconosciuta persino la quantità e impossibile determinarne il valore. L’intero sistema economico globale ne è stato inquinato. Banche, assicurazioni, fondi di investimento sono i maggiori responsabili e quindi l’epicentro del terremoto economico in atto che coinvolge il sistema delle imprese, le attività produttive e di servizio.
Ovunque di fronte a tanto sconquasso si reclama l’intervento dello Stato per evitare fallimenti e far fronte alle conseguenze sociali. Comprensibilmente ma paradossalmente i primi ingenti provvedimenti sono rivolti a un sistema bancario su cui pesano le maggiori responsabilità. Gli Stati Uniti rispondono anche con l’elezione di Obama, con la sua promessa di una netta inversione di tendenza rispetto al precedente ospite della Casa Bianca, con il rilancio di politiche sociali e del ruolo del sistema produttivo. ( Ed è probabile che tra i primi provvedimenti ci sia l’approvazione di una legge che segnerà una svolta anche nel rapporto con i sindacati).
Non è insomma una delle ricorrenti crisi del sistema economico. Per estrema semplificazione immaginiamo una famiglia, di quelle all’antica, fatta di genitori parenti e tanti figli; il reddito complessivo viene dal lavoro, da qualche proprietà immobiliare, da azioni e da investimenti finanziari: che cosa accade se il reddito che proviene da chi lavora si riduce a una parte minima del reddito complessivo? Chi lavora conterà poco e subirà i modelli culturali e consumistici di chi ricava denaro dal denaro. Ma se la rendita finanziaria si trasforma in un cumulo di debiti, non toccherà al lavoro rimettere le cose a posto? E questo può avvenire cooperando con chi ha portato al fallimento o non sarà necessaria una lotta politica che coniughi sviluppo e democrazia per restituire al sistema un nuovo baricentro?
La sinistra in Europa non è riuscita a contrastare lo schema di una globalizzazione - cioè l’estensione dei mercati e l’entrata in campo di nuove incombenti entità nazionali - imposta a partire dagli anni ’70 con la sanzione del primato del dollaro fino alla teorizzazione dell’unilateralismo militare di Bush. La terza via di Blair, forse l’unico tentativo di rielaborazione della sinistra, ha finito per avallare l’idea di un riformismo confinato nel recinto dell’ideologia liberista. Subendo così il ridimensionamento del punto di vista e del ruolo del lavoro.
Non è sfuggita a questo contesto la complicata vicenda della sinistra italiana. Il Partito democratico, pur cogliendo la necessità di una ricostruzione del sistema politico economico e istituzionale non subordinato al neoliberismo, appare contraddittorio nella definizione dei suoi punti di riferimento sociali, delle forze sulle quali fare leva per il cambiamento. Non si può confondere il cittadino, la cui esistenza è condizionata e realizzata dal lavoro, con il consumatore ne relegarlo al ruolo di elettore, anche se si tratta di primarie.
La Cgil pone un problema: il ruolo del sindacato in un sistema democratico già provato e ora minacciato dalla crisi. Governo, Cisl e Uil rispondono con gli incontri segreti e l’esclusione da una decisione che riguarda il riassetto dell’intero sistema contrattuale. La caduta di principi fondamentali a partire dalla lealtà (mai, ha ricordato Epifani, avremmo firmato una riforma della contrattazione senza il consenso di Cisl e Uil) scava un solco nei rapporti tra i sindacati che sarà difficile colmare.
Ci si dovrebbe chiedere perché si è arrivati a tanto. Perché quell’unità sindacale che sembrava avere la strada sgombra di fronte alle trasformazioni del sistema politico si è impantanata. Questioni di merito, si risponde, divergenze profonde e incolmabili: il primato degli iscritti rispetto alla generalità dei lavoratori, il sistema della contrattazione, il rapporto con la politica e il ricorso allo sciopero… Non è vero, si tratta di questioni che attraversano la discussione e le decisioni di tutti i sindacati confederali. Non sono i termini di una sana dialettica interna, che possono dare ragione di una così clamorosa rottura se davvero si mantiene come comune principio fondante l’obiettivo solidaristico di un sindacalismo che vuole continuare a definirsi generale.
E’ la storia che lo dimostra: si arrivò a un passo dalla creazione del sindacato unitario negli anni Settanta, quando i fattori identitari avevano un peso enormemente più grande, e ci si dimentica che non furono questioni di merito ma il veto di Pci e Dc ad evitare che l’operazione giungesse a termine. E’ difficile pensare di ristabilire un obiettivo e sereno terreno di confronto che eviti una spirale autodistruttiva del sindacalismo confederale se non si affronta il problema centrale del rapporto con il sistema politico dopo la caduta della Prima Repubblica. Proviamo a sintetizzare il percorso.
Negli anni Novanta è la Cisl, più della Cgil, che si fa promotrice di quel cambiamento che la legge elettorale maggioritaria prometteva con un bipolarismo che avrebbe dovuto semplificare e rinnovare il sistema. Successivamente il mondo cattolico, senza che mai emergesse una discussione pubblica di merito, si divide: il Vaticano prima promuove un partito semiconfessionale poi riserva a Prodi un atteggiamento di ostentato distacco (fino all’avvento del nuovo papato che getta ombre sul cattolicesimo conciliare). La Cisl si avventura, con il suo leader di allora, verso operazioni politiche che alla fine non troveranno riscontro nello stesso mondo cattolico. Il tentativo della Cgil di Trentin di riprendere il percorso unitario, di fatto, fallisce.
Sempre più si affievolisce il riferimento politico-culturale mentre rimane consistente un sottofondo identitario, ormai anacronistico, che finisce per costituire l’alibi per imporre un’egemonia sulla politica sindacale. La Cisl, che ha tutte le carte per aspirare a un ruolo determinante nell’elaborazione politico-sindacale, finisce per mettere in secondo piano il confronto con la Cgil e con i lavoratori per scegliere la strada dei rapporti di forza politici.
Negli ultimi anni anche la politica della Cgil si appanna, intervengono forzature, anche qui i riflessi identitari giocano il loro ruolo fino a quando il successo dei grandi scioperi dei primi del Duemila, giustamente proclamati contro il tentativo berlusconiano di umiliare il sindacato, vengono spesi nell’agone politico quando tutte le più importanti testate giornalistiche acclamano, che lo volesse o meno, Cofferati leader dei Ds.
La segreteria di Epifani ha lasciato spegnere gli echi di quella stagione. Non altrettanto è accaduto nella Cisl, non ci si è accorti del profondo cambiamento di scenario che ha aggiunto alle già gravi condizioni del paese una crisi globale. Il problema non è stabilire chi è più moderno e partecipativo, è in gioco il ruolo del sindacalismo confederale in un paese nel quale rappresenta un fattore determinante di stabilità democratica. La rottura dei rapporti rischia di far pagare nei prossimi mesi un prezzo molto alto di fronte al crescere degli annunci di chiusura di aziende e attività, mentre il termine flessibilità assume un sapore beffardo e tragico. Oggi si invoca l’esercito per la sicurezza, e domani? Intanto Sacconi pensa alla Russia e alla Cina…
Se l’obiettivo è isolare la Cgil
La riforma della contrattazione non riguarda più chi lavora. La Cgil pone un problema: quale il ruolo del sindacato in un sistema democratico già provato e ora minacciato dalla crisi? E intanto Sacconi pensa alla Russia e alla Cina
26 gennaio 2009 • 00:00