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Il testo che segue è la sintesi dell’articolo pubblicato nella sezione Tema del n.2 2016 de La Rivista delle Politiche Sociali. Gli abbonati possono leggerlo qui in versione integrale. Questo è invece il link alla rubrica che Rassegna dedica alla stessa Rivista
“Il welfare state europeo è in difficoltà, il welfare italiano è in crisi e anche l’istruzione non se la passa molto bene”. Nel ventunesimo secolo, in piena globalizzazione, il futuro di ogni Paese dipende anche in buona parte dal suo cosiddetto “capitale umano”: ciò vale per i Paesi economicamente più avanzati così come per quelli più arretrati, per il “Nord” così come per il “Sud” del mondo. Le disuguaglianze educative e formative sono una componente importante delle disuguaglianze economiche e sociali.
Nel nostro Paese tutti gli indicatori e le comparazioni internazionali mostrano un’insufficiente attenzione alle politiche dell’istruzione e, addirittura, negli ultimi anni, a partire dall’inizio della Grande Recessione, una riduzione consistente di risorse pubbliche destinate alla scuola e all’università. Ciò appare particolarmente significativo nel momento in cui fra i nuovi “rischi sociali” che i welfare state si trovano ad affrontare c’è proprio la necessità di rivedere in profondità i sistemi dell’istruzione e della formazione di fronte ai processi continui e straordinari di innovazione tecnologica in atto.
Molte sono le questioni aperte: dall’innalzamento dei livelli di istruzione allo sviluppo dell’apprendimento permanente, dalla necessità di ridurre la dispersione scolastica all’innalzamento dell’obbligo ai 18 anni, dal potenziamento del “diritto allo studio” alla creazione di meccanismi efficaci nel raccordo scuola-lavoro, dove l’attuale politica di “alternanza” e le scelte in tema di apprendistato non appaiono ancora all’altezza delle sfide in atto. Serve un’innovazione profonda nella didattica, a livello dell’unità classe e dei contenuti: insegnare per far acquisire competenze e, contemporaneamente, cercare di aumentare le conoscenze di coloro che sono privi di qualificazione professionale, così come di chi ha perso il lavoro in età adulta.
In una parola, occorrerebbe mirare all’acquisizione di conoscenze coerenti con la costruzione di profili legati all’evoluzione delle professioni e del mercato del lavoro: una “scuola sociale” che porti alla luce e controlli i rapporti fra sistema educativo e mercato del lavoro dalla prospettiva di un rapporto organico fra società e mondo dell’istruzione. Le modifiche da apportare all’offerta formativa dovrebbero mirare a una didattica “per competenze”, che prenda il posto della didattica “trasmissiva” ed “esercitativa”.
Anche le forme del reclutamento andrebbero profondamente riviste: occorrerebbe andare verso “concorsi interni” per titoli per definire coerenti percorsi professionali, di tipo formativo, didattico, organizzativo. Ridisegnare la figura dell’insegnante, rimettere mano ai compiti dei dirigenti scolastici e dare “visibilità” al personale tecnico-amministrativo, sono alcune delle priorità: la necessità di valutare e valorizzare la scuola, a partire dal personale che vi opera, rappresenta ormai nel nostro Paese una vera e propria “emergenza sociale”. Senza affrontare questi nodi, inserire in modo efficace i sempre più numerosi giovani immigrati nel sistema dell’istruzione e creare un solido raccordo con il mondo del lavoro appaiono quasi una “mission impossible”.
Se si prendono in considerazione la frammentazione dei percorsi, la canalizzazione formativa e la segregazione territoriale, il nostro sistema scolastico, universalista negli scopi, si mostra molto selettivo nella pratica e privo di strumenti (curriculari e non) per fronteggiare la complessità di bisogni presenti nelle classi. Dai confronti internazionali emerge come le criticità più significative riguardino la debolezza del supporto per l’accesso a diversi percorsi educativi, la valutazione iniziale delle competenze, l’assenza di standard di qualità per l’insegnamento dell’italiano ai non italofoni, la mancanza di misure sistematiche di aggiornamento e formazione dei docenti, l’assenza di misure per l’insegnamento di lingue e culture dell’immigrazione, lo scarso adattamento dei curriculum alla diversità culturale.
Le problematiche relative all’inserimento scolastico dei giovani immigrati appaiono particolarmente significative nei maggiori contesti metropolitani: a Milano e Parma circa un quinto degli scolari delle scuole statali, primarie e secondarie di primo grado, già nell’anno scolastico 2012-2013 è rappresentato da stranieri. Nelle scuole dove tale presenza raggiunge (o supera) la soglia del 40%, le performance scolastiche complessive si mostrano particolarmente basse. Anche se, a un’analisi approfondita, occorre distinguere secondo il profilo socio-economico-culturale della scuola: dove si è in presenza di un profilo elevato la relazione tra performance e presenza di stranieri viene meno.
L’altra grande sfida che il sistema educativo si trova ad affrontare riguarda il raccordo con le politiche del lavoro e la transizione scuola-lavoro. In tale ambito, ci troviamo in presenza di alcuni provvedimenti che sembrano segnare una linea di discontinuità con il passato: da un lato l’obbligatorietà per tutte le scuole dei programmi di Alternanza scuola-lavoro (Asl), per un ammontare minimo di 400 ore nell’ultimo triennio degli istituti tecnici e professionali e di 200 ore nei licei e, dall’altro, la realizzazione degli Istituti tecnici superiori (Its), ovvero di un percorso formativo biennale post-diploma in grado di creare finalmente un’alternativa all’istruzione universitaria, fortemente collegato con la domanda di lavoro.
Molte sono le criticità dei percorsi finora realizzati di Asl nel nostro Paese, tali da disincentivare ogni raffronto con il sistema “duale” alla tedesca: una fra tutte la scarsa (quando non nulla) partecipazione delle parti sociali al finanziamento e alla coprogettazione dei percorsi; non v’è tuttavia dubbio sul fatto che, sebbene a macchia di leopardo, sia di molto aumentata in merito la sensibilità istituzionale, soprattutto di ministero e autonomie scolastiche.
Per quanto riguarda invece gli Its, questi consentono di conseguire un diploma statale di tecnico superiore e prevedono un programma complessivo di 1.800-2 mila ore in due anni, dove oltre il 40% di queste è destinato a tirocini aziendali, a cui si aggiungono a livello di formazione teorica anche attività di didattica laboratoriale e visite aziendali. Tale disegno riprende esperienze già ampiamente radicate negli altri Paesi europei, nei quali accanto al sistema universitario, si è tradizionalmente sviluppato un sistema di scuole tecniche e professionali superiori in forte raccordo con le imprese e il mercato del lavoro.
Non solo. Occorre ricordare come il canale da sempre privilegiato nel nostro Paese per intrecciare formazione e lavoro sia stato l’apprendistato: in tale ambito, da oltre 60 anni (il contratto di apprendistato nasce nel 1955) si sono esercitati continuamente i nostri legislatori, tanto da modificarne continuamente le caratteristiche. Di fatto, quando in Italia parliamo di apprendistato ci si riferisce pressoché esclusivamente all’apprendistato professionalizzante, uno dei tre individuati dalla legge 30 del 2003. I recentissimi provvedimenti del governo in carica hanno cercato di razionalizzare la materia, puntando a una migliore organizzazione degli altri due: così, con l’apprendistato di primo livello si consente ai giovani di conseguire la qualifica triennale, il diploma professionale (ottenibile tramite i corsi di formazione professionale regionali) e il diploma di scuola secondaria superiore; mentre con quello di terzo tipo si accede al livello universitario, all’attività di ricerca e al praticantato necessario per le professioni ordinistiche.
Passando invece alla realtà dei dati, il quadro dell’apprendistato che a oggi emerge non appare confortante. Ancora poco utilizzato, praticamente solo nella tipologia professionalizzante, più diffuso al Nord e al Centro che al Sud, l’apprendistato coinvolge più ragazzi che ragazze, più giovani adulti (24-29 anni) che non giovanissimi (con meno di 24 anni). Nonostante gli intendimenti e le politiche per trasformarlo nel contratto di inserimento per eccellenza, continua a configurarsi come canale di recupero di insuccessi scolastici e incide poco sulla riduzione della disoccupazione. Sembra inoltre aver in larga parte smarrito la sua capacità di mettere insieme formazione e lavoro. Ciò a causa dei provvedimenti normativi degli ultimi anni. Sta forse maturando il tempo per un ripensamento del sistema complessivo dell’istruzione e della formazione: Asl, Its e nuovo apprendistato potrebbero rappresentare alcuni importanti tasselli del futuro sistema, anche se taluni meccanismi andrebbero rivisti e ripensati ulteriormente, alla luce delle esperienze realizzate.
Accanto a questo “cantiere aperto” ha invece preso forma la “grande fuga dall’università”: il crollo delle immatricolazioni negli atenei italiani a partire da inizio secolo ha assunto proporzioni ragguardevoli, il tasso di passaggio dalla scuola secondaria superiore all’università è sceso sotto il 60% (nelle regioni meridionali addirittura sotto il 50%). Ciò appare particolarmente significativo in un Paese da sempre caratterizzato da una scarsa diffusione di titoli di studio universitari. La diminuzione delle immatricolazioni, in atto già prima dell’inizio della crisi economica, non è stata neutra riguardo alla classe sociale di origine degli studenti iscritti: questi ultimi risultano sempre più provenienti da famiglie di elevata classe sociale. Tutto ciò evidenzia come il sistema delle politiche di sostegno allo studio a favore di studenti meritevoli e svantaggiati sia, allo stato attuale, largamente carente e non all’altezza delle sfide in atto.
Ugo Ascoli è professore ordinario di Sociologia economica presso l’Università politecnica delle Marche
Emmanuele Pavolini è professore associato di Sociologia dei processi economici e del lavoro presso l’Università di Macerata