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Pubblichiamo l'introduzione di Fabrizio Barca al volume di Mario Sai "Vento dell'Est: toyotismo, lavoro, democrazia", approdato in questi giorni nelle librerie
“Ma, in ogni strategia politica di sinistra, il lavoro non solo è centrale; è il protagonista del cambiamento”. Con queste parole Mario Sai mi spronava, come tante altre volte nel mio percorso di questi anni, a essere più preciso e secco nel testo “La Traversata”, con cui dopo tanti anni tornavo nel 2012 a “fare politica”. Il libro di Sai (“Vento dell’Est: Toyotismo, lavoro, democrazia” – Ediesse, pp 177, 12 euro) spiega questo “protagonismo” del lavoro. Mira a convincere il lettore che le nuove tecnologie non predeterminano il futuro, che la “partecipazione dei lavoratori” – per noi italiani un principio costituzionale (art. 3) – è la chiave dell’avanzamento sociale a cui la sinistra aspira e che si tratta di una strada possibile, ma per riuscire a imboccarla servono un sindacato e serve un partito di sinistra che faccia della partecipazione dei lavoratori la “prima cura”.
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Ho avuto la fortuna di vederlo crescere, questo lungo saggio, attraverso passi intermedi, che ho usato nel mio lavoro, come succede fra persone che, una volta incontratesi, mantengono fra loro aperto un filo, sempre. Ma è diverso ritrovarlo ora compatto. Si presenta come una cavalcata su tre piani paralleli: la successione storica di diversi modelli e ideologie di organizzazione capitalistica del lavoro; la loro applicazione in Italia; l’evolversi dell’azione sindacale. Una cavalcata non fine a se stessa. Ma con l’obiettivo di offrire spunti per cambiare le cose.
Sulla tecnologia, Sai si spende a lungo e lo fa riportando in modo vivido il pensiero di Ford, Taylor e poi Ohno. Arriva così al punto che gli serve per mostrare che esistono gli spazi per il cambiamento, ma che bisogna saperli occupare. Discutendo delle possibilità di utilizzo della Rete nell’organizzazione del lavoro, osserva: “Le prestazioni di ciascuno, dentro la Rete, diventano più ‘trasparenti’ tanto al singolo lavoratore che al resto dell’organizzazione. Sono possibili forme più pervasive di controllo, oppure si può accrescere la partecipazione di ciascuno alla vita lavorativa integrandola nel processo decisionale, che diviene processo ‘collettivo’ di discussione, in cui l’autorità stessa potrà essere sottoposta a dibattito e confutazione”.
È come il ruolo della Rete nel processo democratico: può servire al dominio o all’imbonimento da parte di un vertice autoritario, oppure può consentire una verifica diffusa sul vertice da parte dei cittadini. Come per il processo democratico, anche nell’organizzazione capitalistica del lavoro la soluzione più favorevole non viene da sé. Va capita e poi ottenuta con la lotta. Altrimenti le cose andranno nella direzione opposta. Così è stato, ci ricorda Sai, quando “agli ingegneri addetti agli uffici tempi e metodi subentrano i programmatori, impegnati a studiare la one best way per razionalizzare l’attività mentale, allo stesso modo in cui i loro predecessori studiavano la one best way per razionalizzare il lavoro manuale”. O quando la potenzialità di circolazione più libera della conoscenza è stata arginata e rovesciata dalla decisione, con gli accordi nazionali Trip, di accrescere i diritti di proprietà sul capitale immateriale, sulle idee.
Per evitare questi scenari (che in realtà oggi tendono a prevalere), la carta che il lavoro deve giocare è, secondo Sai, quella della “partecipazione”, la parola chiave dell’intero saggio. Il punto di forza da cui il lavoro può partire è che di una sua partecipazione al processo produttivo la nuova organizzazione produttiva ha bisogno, perché la conoscenza è diffusa ed è imperativo per l’impresa individuare presto gli “errori” e adattare la produzione a una domanda volatile e sempre più diversificata. “Lo stesso lavoro operaio ha acquistato sempre più elementi di immaterialità ... Conta la configurazione dei sistemi di controllo ... diventano decisive le capacità di ideazione/astrazione, di comunicazione, di relazione in una commistione di attività ripetitive e di intensa partecipazione responsabile al ciclo produttivo”, scrive Sai.
Il conflitto capitale-lavoro cambia natura: “Un conflitto di tipo nuovo tra le capacità crescenti dei lavoratori di usare le tecnologie (e le conseguenti richieste di autonomia professionale e di auto-organizzazione dei tempi e delle attività) e la capacità del sistema aziendale di mantenere il governo dei comportamenti e dell’utilizzo del tempo, regolando la flessibilità e promuovendo fedeltà all’organizzazione”. In questo quadro il lavoro ha una nuova chance: costruire “forme di coprogettazione e di responsabilità comuni, che danno ai lavoratori coscienza del proprio valore nel processo produttivo”; “partecipare al governo dei processi”. Ma è indispensabile, e su questo Sai è categorico, l’organizzazione in un sindacato.
Ha ragione. Il rapporto di forza fra capitale e lavoro resta capitalistico, perché il lavoro si specializza nell’utilizzo di un capitale, materiale o immateriale che sia, che in ogni istante può essergli legalmente sottratto. E quindi solo l’unione dei lavoratori può riequilibrare questo rapporto di forze, sottraendo a chi controlla il capitale tutto il lavoro che c’è. Solo a partire da questo riequilibrio, come tante volte è avvenuto nella storia del capitalismo, si potrà aprire un confronto negoziale fra lavoro e soggetti che controllano il capitale. E da questo confronto e conflitto potranno nascere nuove idee, nuove soluzioni, una nuova tecnologia che possa, a un tempo, accrescere la produttività e rendere il lavoro più libero. Questo è vero tanto nell’industria manifatturiera, che resta la spina vitale del nostro paese, la fonte del suo benessere, sia nel terziario, arretrato o avanzato che sia.
Lascio al lettore la descrizione che Sai fa dei tentativi concreti, fra alcuni successi e molti insuccessi, dei sindacati, in Italia, di costruire queste nuove forme di partecipazione e l’esame dettagliato della recente “vicenda Fiat”. Eppure, prosegue Sai, è dalla capacità del lavoro di costruire forme nuove di partecipazione, anche per mano di un sindacato che occupi quegli spazi, che passa non solo la sua emancipazione, ma quella dell’intera società. Sai infatti non è convinto per nulla dell’idea, pure così “di moda”, che l’avanzamento sociale collettivo possa essere trascinato dai ceti urbani “riflessivi”: dai giovani di Occupy Wall Street a quelli che in Italia “sono stati protagonisti dell’antiberlusconismo”.
Egli giudica la loro cultura ambigua e lo fa in modo severo: “Dietro la rivendicazione di una riappropriazione collettiva dei diritti sociali e dei beni comuni è forte la separazione dalle classi subalterne e popolari, un evidente disinteresse per la loro condizione”. E prosegue: “Quando si affrontano grandi temi come l’accoglienza degli immigrati si trascura la condizione delle periferie popolari dove si scarica il problema ... quando ci si batte per la democrazia partecipativa si contribuisce con l’antipolitica a spingere l’elettorato dotato di minor capitale sociale verso l’astensionismo”. Sono parole scritte da chi crede nella democrazia partecipativa e nell’accoglienza degli immigrati e che nella vita si è battuto per quei valori. Sono parole scritte da chi conosce anche il potenziale innovativo della “nuova cittadinanza”, come la chiama Giovanni Moro. E che nella pratica di rappresentanza del sindacato, nell’attuazione della politica di coesione comunitaria – il ruolo in cui l’ho originariamente conosciuto – ha contribuito in modo convinto e autorevole a sfruttare i limitati spazi di partecipazione democratica offerti dal nostro paese.
Le sue parole sono dunque l’invito a non pensare che dal mondo della cittadinanza attiva – che è ricco e innovativo per la democrazia e soprattutto irreversibile – possa venire direttamente la spinta a cambiare. Perché gli manca dentro un corno fondamentale della società: il lavoro salariato organizzato. Ecco perché alla fine della lunga cavalcata Sai approda alla necessità di un “partito nell’accezione che ne dà la nostra Costituzione: strumento che garantisca l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”. Lo convince, allora, il partito palestra o della “mobilitazione cognitiva” che ho tratteggiato e poi sperimentato con mille persone di buona volontà. Un partito che ridà importanza ai cittadini e al loro sapere per il buon governo e alla “democrazia per mezzo di dibattito” di Amartya Sen.
Un partito che, proprio perché raccoglie persone con lo stesso sistema di valori di sinistra, ma con interessi diversi, può trovare un punto di accordo (non di mediazione) fra il diritto all’accoglienza degli immigrati e il diritto a condizioni di vita dignitose nelle periferie popolari. E che può coltivare e battersi per la democrazia partecipativa, dando a tutti i cittadini attivi gli spazi per esprimere e perseguire le proprie soluzioni, senza che ciò scivoli nell’antipolitica. Ma questo partito, è il messaggio finale di Sai, per essere tutto ciò, deve fare della partecipazione dei lavoratori la sua “prima cura”. Altrimenti “coinvolgerà soprattutto chi possiede un capitale (economico, culturale, sociale)”. È una considerazione importante. Perché la conoscenza, le preferenze, la voce dei lavoratori, consapevoli del loro ruolo, il peso di queste nell’accordo che il partito può produrre, sono decisivi affinché quell’accordo conduca davvero a un avanzamento sociale.
Tienici sempre d’occhio, Mario, e continua a esercitare la tua influenza. Perché i passi di questi due anni ci dicono che è davvero difficile. Ci dicono, pure nei risultati interessanti che abbiamo raggiunto, che coinvolgere il lavoro è arduo dopo tanti anni di non-cura. Torniamo dunque a ragionare a un tempo su tecnologia e organizzazione del lavoro. A dialogare con le rappresentanze del lavoro. A pretendere che siano sentite e che partecipino al confronto sulle scelte di politica pubblica. Non in quella forma burocratica affermatasi negli anni generosi, ma svianti, della concertazione. Ma riprendendo quella forma assai più congeniale al nostro paese che ha avuto nelle Camere del lavoro territoriali il suo momento alto, irresponsabilmente interrotto. Mi auguro, ci auguriamo in tanti, che questo saggio di Sai possa servire ad aprire un confronto di questo tipo, prima di tutto nel suo amato sindacato.