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L’andamento dell’economia europea continua a dimostrarsi complessivamente debole. Le prospettive di crescita dipendono più che mai dal recupero della domanda interna. Occorre allentare esplicitamente la morsa depressiva imposta dai vincoli europei, per spingere gli investimenti e creare occupazione, in primo luogo attraverso politiche pubbliche. Occorre una spinta più forte per aumentare gli investimenti pubblici direttamente europei (per 2.600 miliardi di euro in 10 anni, come dice la Confederazione europea dei sindacati, non 260 in 5 anni come sostiene Juncker) nei settori innovativi e nei bisogni sociali; creare direttamente occupazione invece che svalutare il lavoro. Questo consentirebbe di dare spazio maggiore a politiche di crescita in Europa e, soprattutto, in Italia. Questo è il passaggio più importante per aiutare lo sviluppo e uscire da condizioni di deflazione (oggi ampiamente sottovalutate) che possono produrre effetti di depressione e stagnazione di lungo periodo.
Dall’inizio della crisi a oggi, l’Italia registra la maggiore intensità recessiva tra tutti i principali paesi industrializzati: in 6 anni, si contano 8,8 punti percentuali in meno di Pil; 12,2 punti in meno di domanda interna; 28,2 punti in meno di investimenti fissi. Non solo. La produzione industriale italiana si è ridotta di oltre il 25 per cento e la disoccupazione è a livelli mai registrati negli ultimi decenni. Anche nel nostro paese si possono percorrere politiche diverse, più efficaci contro la deflazione e più eque, come proponiamo con il nostro Piano del lavoro. Nuove politiche industriali che innovino e qualifichino la nostra struttura produttiva e dei servizi, aumentandone la produttività attraverso riforme di struttura giuste (innovazione, ricerca, investimenti nella scuola e formazione e, quindi, nel capitale umano, che oggi viene sprecato in attività dequalificate e mal retribuite).
Impostare nuove politiche per l’uguaglianza in un paese, e qui sta la grande anomalia italiana, in cui evasione e concentrazione di ricchezza hanno fatto sì che il capitale privato sia passato, in 30 anni, dal 240 per cento del reddito nazionale al 680, mentre il capitale pubblico si sia ridotto dal più 20 al meno 70 per cento. Da tempo la Cgil propone di tassare i grandi patrimoni, con un gettito potenziale di circa 10 miliardi di euro che potrebbe sostenere un piano straordinario per l’occupazione, soprattutto giovanile e femminile, per la produzione di beni e servizi utili socialmente, beni ambientali (pensiamo al dissesto idrogeologico), beni pubblici, beni comuni, beni sociali. Un impegno di spesa pubblica 2014-2016 di 10 miliardi genererebbe quasi 290.000 nuovi posti di lavoro pubblici e oltre 740.000 nuovi occupati totali, tra pubblico e privato, con un tasso di disoccupazione al 2016 che si ridurrebbe al 6,9 per cento.
Il Pil cumulato nel triennio 2014-2016 sarebbe pari al 4,4 per cento. Ma la Cgil insiste anche, da anni, sulla necessità di dare una vera svolta alla lotta all’evasione fiscale e, se si riportasse il livello italiano alla stregua di quello francese o tedesco, si avrebbero benefici, rispettivamente, per 65 e 80 miliardi di euro all’anno. Fatte queste dovute premesse, bisogna dire che la legge di stabilità presentata in Parlamento non offre risposte alla necessità di un cambio di passo nella poltica economica. Si tratta di un provvedimento che programma la riduzione della spesa e degli investimenti pubblici, sperando in un aumento degli investimenti privati finanziati da riduzioni fiscali a pioggia. La riduzione della spesa è riduzione certa di domanda aggregata che non solo non sostiene lo sviluppo, ma determina anche una riduzione della spesa sociale e/o di aumento del prelievo fiscale, in particolare quello a livello locale. Si continuano a non riconoscere i tratti strutturali della crisi, rinviando la ripresa al superamento della sfavorevole congiuntura internazionale e scommettendo sui mai comprovati “effetti di lungo periodo” delle politiche strutturali, che però si limitano alla compressione di diritti e salari.
In questo quadro negativo, la legge di stabilità evidenzia anche provvedimenti specifici particolarmente gravi e non accettabili:
1) La prosecuzione di una politica che in tema di spesa pubblica e di pubbliche amministrazioni si muove nella stessa direzione “di miope rigore” scelta dai precedenti governi e che produce effetti perversi anche sul lavoro pubblico. Il blocco della contrattazione nazionale fino al 2015 porta a 6 gli anni di blocco dei contratti nazionali, con una perdita di potere d’acquisto di non meno di 5.000 euro per lavoratore e, oggi, si prevede di mantenerla bloccata fino al 2018.
2) Il bonus di 80 euro rimane limitato agli stessi beneficiari, mentre il sindacato ha più volte insistito per allargarne la fruizione ai pensionati, ai titolari di partite Iva iscritti alla gestione separata Inps e agli incapienti con redditi da lavoro dipendente e assimilati. Questo non solo per ragioni di equità, ma anche per il bisogno che il paese ha di una scossa verso il sostegno alla domanda e ai consumi. Il sindacato, inoltre, ne richiedeva la stabilizzazione, non essendo il bonus, come più volte annunciato e come fatto con l’Irap, effettivamente strutturale, ma sarà necessario trovare le risorse per la sua conferma anno per anno.
3) Per quanto riguarda il tfr, ribadiamo i nostri dubbi su un provvedimento che prova a far crescere i consumi senza immettere risorse, semplicemente anticipando in una partita di giro soldi dei lavoratori, mettendo a rischio il risparmio previdenziale dei lavoratori. Il tutto senza contare che il tfr liberato sarà tassato con l’aliquota marginale ordinaria Irpef (anziché con l’attuale agevolata), con l’aggiunta delle addizionali locali, che altrimenti non sarebbero state applicate in regime di tassazione separata. Gli effetti negativi della normativa relativa al tfr in busta paga si sommano e sono aggravati dalla previsione relativa all’aumento della tassazione sui rendimenti, che non è coerente con gli impegni del Parlamento e del governo a sostegno di una politica di previdenza complementare in grado di integrare la futura prestazione del sistema pubblico, ostacolando il perseguimento di più elevati livelli di copertura previdenziale. L’auspicata spinta a liberare liquidità immediata molto probabilmente non ci sarà (né, tantomeno, i maggiori consumi), proprio a causa dell’innalzamento della tassazione che scoraggerà il lavoratore a liberare il proprio tfr.
4) Per le assunzioni di nuovi addetti a tempo indeterminato (e dovremo per comprendere cosa vorrà dire concretamente), è prevista la totale esenzione della quota di contribuzione a carico dei datori di lavoro, senza una precisa finalizzazione verso nuovi investimenti e occupazione aggiuntiva. L’assoluta indeterminatezza dei criteri attraverso i quali dovrebbe essere reso cogente il sostegno a nuova occupazione (aggiuntiva) rende il provvedimento una pura riduzione del costo del lavoro stabile a tutto vantaggio delle imprese. Giocare con i numeri degli occupati è molto rischioso, si creano aspettative che non verranno rispettate e gli 800.000 nuovi posti di lavoro previsti sono, ha dichiarato il presidente dell’Ufficio parlamentare di Bilancio, “del tutto virtuali”.
5) Nella scelta di riduzione dell’Irap non si intravede un’adeguata funzione di politica economica. Essa non effettua distinzioni tra aziende che vogliono investire e aziende che sono in smobilitazione (l’Ast di Terni risparmierebbe circa 7 milioni di euro), tra aziende che innovano e assumono e aziende che invece puntano solo alla svalutazione del lavoro. Per questo crediamo che tale ingente sgravio debba essere più selettivo e orientato e per sostenere l’occupazione. In mancanza di ciò, la ricaduta più probabile sarà quella di un mero aumento dei profitti d’impresa.
6) Il provvedimento prevede anche un pesante intervento nei confronti dei patronati. Questi tagli pregiudicheranno l’attività di assistenza e di tutela svolti in maniera gratuita nei confronti di milioni di cittadini, privandoli del diritto di avere accesso ai servizi. È da rilevare che l’Inps ha evidenziato come “senza l’attività dei patronati, la pubblica amministrazione dovrebbe aprire e gestire circa 6.000 uffici permanenti, che si tradurrebbe in un aumento degli organici di 5.130 unità, 564 milioni di euro di risparmio per l’Inps, occorrenti per garantire annualmente gli stessi servizi”.
* coordinatore dipartimento politiche economiche Cgil nazionale