PHOTO
Il testo che segue è la sintesi dell’articolo pubblicato nella sezione Tema del n.2 2016 de La Rivista delle Politiche Sociali. Gli abbonati possono leggerlo qui in versione integrale. Questo è invece il link alla rubrica che Rassegna dedica alla stessa Rivista
Il fenomeno degli abbandoni universitari prima del completamento degli studi è un problema endemico dell’università italiana, in parte responsabile della scarsa diffusione di lauree nella popolazione rispetto agli altri Paesi europei. Già nei primi decenni del ventesimo secolo la percentuale di studenti italiani che lasciava l’università prima dell’ottenimento del titolo di studio universitario si aggirava tra il 30 e il 40%. Nei decenni precedenti la seconda Guerra mondiale, però, l’incidenza degli abbandoni precoci degli studenti provenienti dalle classi sociali più basse non era significativamente diversa da quella degli studenti dell’upper class. Al contrario, a partire dagli anni del secondo dopoguerra, la dispersione universitaria si è andata concentrando in misura via via sempre più pesante tra gli studenti provenienti dalle classi sociali più deboli.
L’esistenza di un legame tra “classe sociale” di origine e abbandoni universitari non è difficile da spiegare. Le famiglie appartenenti agli strati sociali più elevati sono maggiormente propense a impiegare risorse per aiutare i propri figli a continuare gli studi, fornendo loro supporto, sia finanziario che motivazionale. In ogni caso, mentre in alcuni Paesi del Nord Europa, anche grazie al forte sostegno economico fornito dallo Stato agli studenti, l’incidenza degli abbandoni universitari è scarsamente influenzata da fattori socio-economici, in Italia l’influenza del background familiare dello studente sulle scelte di (iscrizione e di) abbandono precoce degli studi universitari è particolarmente significativa.
Non solo. I dati Ocse rivelano che l’Italia è caratterizzata dalla più alta percentuale di abbandoni universitari su un campione di 15 Paesi europei, mentre il Miur ha calcolato che la percentuale di mancate reiscrizioni tra il primo e il secondo anno di corso si è mantenuta tra il 15 e il 20% dalla fine degli anni novanta a oggi, con una percentuale di immatricolati che arrivano alla laurea quattro anni dopo l’immatricolazione poco superiore al 42%. Neanche la riforma universitaria implementata nel 2001 (dm 509/1999) è riuscita a scalfire il problema se non in modo trascurabile e transitorio, e solo a partire dall’anno accademico 2007-2008 (coincidente con l’inizio della Grande Recessione) si è notata una decisa e costante riduzione della percentuale di mancate reiscrizioni.
A tal proposito, la teoria economica ci insegna che un periodo di recessione economica può avere effetti di segno opposto sulle scelte scolastiche degli individui. In primo luogo, la riduzione dei redditi delle famiglie e dei tassi di occupazione degli adulti può creare vincoli economici tali da indurre alcuni individui ad abbandonare gli studi prima del conseguimento del titolo. In secondo luogo, il peggioramento delle condizioni del mercato del lavoro giovanile può ridurre i “costi opportunità” dello studio e indurre gli individui a proseguire nel percorso universitario fino a che un’eventuale ripresa economica non migliori le prospettive di trovare lavoro.
La più diffusa interpretazione del recente calo degli abbandoni nelle università italiane è basata proprio sulla teoria dei “costi opportunità”. Questa interpretazione rischia però di essere distorta e fuorviante nel momento in cui si trascuri l’effetto del declino delle immatricolazioni che da oltre 10 anni caratterizza il nostro sistema universitario. In effetti, è difficile pensare che la forte diminuzione delle immatricolazioni a cui si è assistito nell’ultimo decennio sia stata “neutrale” riguardo a caratteristiche individuali e familiari degli studenti capaci di influenzare in maniera significativa la probabilità di abbandonare gli studi prima del raggiungimento della laurea.
In un recente articolo basato su dati Istat, si mostra come l’insieme degli studenti iscritti all’università è sempre più composto da individui provenienti dalle classi sociali più alte e da studi superiori a elevato orientamento accademico. Oltre a questo fatto, che già di per sé avrebbe contribuito a diminuire i dropout universitari, negli ultimi anni risulta ulteriormente rafforzato il ruolo “protettivo” nei confronti dei rischi di abbandono precoce degli studi rappresentato dall’appartenere a una famiglia dell’upper class. In pratica, il differenziale nella probabilità individuale di abbandono precoce degli studi tra uno studente appartenente alla borghesia e uno studente appartenente alla classe media è aumentato del 3% durante gli anni della crisi.
In altri termini, quando la crisi ha colpito l’Italia, nell’autunno del 2007, gli iscritti all’università già da anni avevano cominciato ad autoselezionarsi su caratteristiche tradizionalmente correlate negativamente con la probabilità di abbandono degli studi, e la riduzione dei dropout che si nota nei dati aggregati degli ultimi anni è dovuta più a effetti di “composizione” che non alla riduzione dei “costi opportunità” dello studio generata dalla crisi. Questo, unitamente all’aumentata influenza dello status sociale della famiglia di origine sulla probabilità di abbandono degli studi, ci fa supporre che se le caratteristiche socio-economiche degli studenti non fossero “migliorate” prima della crisi, durante la recessione avremmo osservato un aumento e non una diminuzione del tasso aggregato di abbandono degli studi universitari.
Stando così le cose, se il trend emergente dovesse consolidarsi, l’Italia si troverebbe a fronteggiare un ulteriore duraturo declino del numero di laureati e un ulteriore peggioramento delle disuguaglianze nella distribuzione dei redditi e della mobilità sociale intergenerazionale. Sembra pertanto opportuno un potenziamento della rete di interventi per il diritto allo studio, a favore di studenti (meritevoli) sprovvisti di mezzi finanziari adeguati, in particolare in periodi di crisi economica, che mettono a dura prova i bilanci familiari.
Emanuela Ghignoni è ricercatrice di Politica economica presso il dipartimento di Economia e Diritto dell’Università “Sapienza” di Roma, dove insegna Politica economica avanzata