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Con l’approvazione della legge sulla legittima difesa, che entrerà in vigore dal prossimo 18 maggio, la maggioranza parlamentare apparentemente mostra di concedere fiducia alla giustizia “democratica”, o meglio al potere immediatamente punitivo della vittima di un reato. La giustizia fai da te, rientra in una corrente di pensiero che nega allo Stato il monopolio della violenza legittima a tutela dei beni fondamentali del singolo: quando le pubbliche istituzioni non sono in grado di intervenire in maniera immediata ed efficace, è al cittadino che viene riconosciuto un vero e proprio diritto all’autodifesa, non come eccezione, ma come ordinaria difesa di tutti i propri diritti fondamentali. È la naturale privatizzazione dell’ordine, in favore degli abbienti e dei potenti, che disdegnano, rifiutano, suppliscono la protezione dello Stato in una particolare versione violenta del populismo.
Ai giorni nostri, questo pensiero viene sostenuto dall’area politica più penalmente compromessa e più consapevole dell’irrinunciabilità della grande trasgressione quale strumento di sopravvivenza e di sopraffazione. Questo partito trasversale tenta quindi di sottrarsi all’attenzione della pubblica opinione con un trasparente diversivo: l’autotutela dei cittadini abbienti dalla piccola delinquenza. Non è sicuramente casuale che i governi di centro-destra nel 2006 e nel 2019 abbiano ripetutamente posto nella loro strategia politica il rafforzamento della causa scriminante della legittima difesa. Lo Stato fornisce “un’arma legittima” al cittadino per la difesa e per l’offesa, ammettendo la propria incapacità di intervenire tempestivamente ed efficacemente a tutela dell’ordine giuridico.
La scriminante è nata nel codice Rocco con un preciso scopo: utilizzare la legittima difesa come strumento per difendere la società da soggetti pericolosi, soprattutto per delitti contro la proprietà. Il regime fascista “risolve” il “conflitto di classe” tra i proprietari e i non abbienti che ricorrono al furto, dando la prevalenza all’autotutela dei primi. L’autotutela dalla miseria non merita alcuna giustificazione. Con il crollo della dittatura, nell’Italia democratica rimane ed è addirittura aggravato l’istituto della legittima difesa quale strumento per difendere la proprietà da chi non ce l’ha. Le maggioranze a prevalenza reazionaria e disumana, puntano a voler “risolvere” il problema del discredito sociale drammatizzando la questione criminale e avvalendosi dell’emotività collettiva orchestrata dagli organi mediatici di fiducia.
Di qui l’introduzione, con la legge del 2006 della cosiddetta “legittima difesa domiciliare”, con la previsione di una presunzione assoluta di proporzionalità tra difesa e offesa nell’ipotesi di reazione armata contro chi invada il sacro suolo della proprietà, del domicilio e dei territori annessi. La chiave interpretativa della magistratura fedele alla Costituzione ha negato l’esimente, nel senso che ha escluso che possa essere leso un bene di primaria importanza, quale l’incolumità fisica, per difendere, anche con la violenza armata, un altro bene di secondo ordine, quale la proprietà e il domicilio: nel raffronto qualitativo e relativistico di beni in conflitto, il requisito della proporzione è escluso “quando la consistenza dell’interesse leso, quale la vita e l’incolumità della persona, sia enormemente più rilevante sul piano della gerarchia dei valori costituzionali e di quelli penalmente protetti, dell’interesse patrimoniale difeso, e il male inflitto abbia un’intensità di gran lunga superiore a quella del male minacciato”.
In polemica con questa interpretazione restrittiva della difesa armata della proprietà, è stata ulteriormente limitata la valutazione giudiziaria delle risultanze processuali, è stato cioè posto ulteriore freno al libero convincimento del giudice con l’approvazione della legge 28 marzo 2019, promulgata il successivo 26 aprile, rafforzando formalmente la presunta proporzione tra pericolo incombente sul bene patrimoniale e lesione del bene della vita. È stata rafforzata cioè una simbolica contrapposizione classista tra “persone per bene” armate e persone non abbienti: questi ultimi, per presunzione assoluta, sono destinati a diventarne legittimo bersaglio.
Con terminologia bellica – ritenuta necessaria rispetto al trasgressore nemico – l’attuale maggioranza mostra di aver perso ogni ambizione di prevenzione, la cui plausibilità logica ancor prima che politica si fonda su un apparato di welfare munito di mezzi economici e di volontà politica diretti a realizzare l’integrazione degli strati emarginati. Il rinnovato sistema penale privilegia la neutralizzazione di massa degli emarginati dal mondo degli abbienti, fino a non disdegnare la loro esclusione dal mondo dei vivi.
È oggettivamente documentato che manca una base di dati statistici legittimante la smania della caccia al ladro, della difesa armata dell’abitazione e della bottega, dello stabilimento. I sostenitori dell’autotutela armata non credono nella tutela statale, ma non mostrano un coerente impegno per il recupero della sua efficienza con investimenti diretti al rafforzamento numerico e logistico delle forze dell’ordine.
La conferma di questa austerità contabile, correlata all’ampollosa e martellante istigazione all’autotutela privata, porta a un’allarmante conclusione sulle reali finalità della riforma, inquadrata nella politica della maggioranza. Da questa emerge infatti la costruzione di una micidiale macchina produttiva di consenso, le cui componenti sono: • la premeditata chiamata alle armi di commercianti, industriali, cittadini qualunque, fatta in campagna elettorale e protratta nel corso della legislatura, promettendo un’improbabile impunità; • la cinica strumentalizzazione dell’ansia dell’uomo massa di apparire eroe armato contro la criminalità e di essere oggetto dell’ammirazione dei consociati e dell’elogio del popolare ministro della polizia, pronto a visite in carcere e a promesse di clemenza; • la chiusura dei confini marini e l’ampliamento della battigia su cui far pericolosamente stazionare gli indesiderati e pericolosi stranieri, in quanto presunti criminali.
Dopo la primavera giudiziaria, del riconoscimento della legittimità dell’autotutela delle classi subalterne, nella prospettiva dell’uguaglianza formale e sostanziale, dovrebbe oggi seguire una giurisprudenza che – in continuativa fedeltà alla Costituzione – affermi l’illegittimità di uno strumento di autotutela proiettato a un incrudelimento delle disuguaglianze e a un restringimento dell’autonomia del potere giudiziario. È ragionevolmente positiva la prognosi di una legittima difesa giudiziaria della legalità costituzionale, guidata anche dall’indirizzo interpretativo indicato dal presidente della Repubblica nel suo messaggio rivolto alle Camere in occasione della promulgazione della legge.
Antonio Bevere, direttore di “Critica del diritto”, già consigliere di Cassazione