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Gli ultimi trent’anni di economia iperliberista hanno cambiato strutturalmente il pianeta in tutte le sue sfaccettature. Pochi ricchi sono diventati sempre più ricchi. E tanti poveri sono diventati sempre più poveri senza essere per di più capaci di aiutarsi tra di loro realizzando quel regime solidale che alla fine dell’Ottocento ha fatto nascere a sinistra e poi nel mondo cattolico sindacati e leghe di mutuo soccorso. Un vero disastro sociale, dove i penultimi fanno la guerra agli ultimi invece di coalizzarsi per un obiettivo comune come è successo dopo la sconfitta del nazifascismo nell’“età dell’oro” – il trentennio 1945-75, chiamato così da Eric Hobsbawm –.
La casa editrice Laterza, che negli ultimi anni in particolare ha dedicato molte sue pubblicazioni al contrasto di quello che una volta chiamavamo “il pensiero unico”, ha arricchito ultimamente il proprio catalogo con “La lotta di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi”. Vero! del sociologo e storico Marco Revelli (pp. 96, euro 9,00) e con Solidarietà, un’utopia necessaria del giurista Stefano Rodotà (pp. 142, euro 14,00). Due uscite pressoché simultanee, quasi a testimoniare il legame forte che c’è tra questi due aspetti della crisi mondiale.
Revelli, nel suo breve ed efficace lavoro, dimostra come il paradigma secondo il quale “l’eguaglianza non è più una virtù”, vera e propria reazione antikeynesiana dopo mezzo secolo di egemonia culturale del pensatore britannico, sostituisca di fatto il concetto egualitario che era diventato un vero e proprio elemento regolativo sul quale – scrive lo studioso – “si erano orientate le politiche pubbliche dell’Occidente democratico”, diventando un indicatore anche della solidità della democrazia nei diversi paesi.
Nel suo libro il figlio del grande partigiano Nuto descrive bene come i “poteri forti”, quelli veri per intenderci e non i presunti nemici di Renzi, abbiano convinto anche le grandi forze della socialdemocrazia europea e l’opinione pubblica più in generale che un po’ di disparità sociale in fondo faccia solo bene all’andamento dell’economia, capace poi di assestarsi da sola, senza l’intervento, ormai demonizzato, dello Stato. “L’idea che un ‘un secolo di eguaglianza faccia male all’economia’ – o, più semplicemente, che ‘una buona dose di diseguaglianza faccia bene alla crescita’ –, ha alimentato le politiche di deregulation prevalse nell’epicentro anglosassone e affermatesi nel circuito della globalizzazione”. Tutto questo ha portato alla fine della tassazione progressiva e del concetto appunto di eguaglianza sociale che aveva permeato mezzo secolo di storia. Realizzando, come avrebbe detto Antonio Gramsci, un’egemonia culturale ora dura da contrastare e da sconfiggere.
Un paradigma smentito dai fatti
Revelli spiega come e con quali strumenti ideologici si è arrivati a questa situazione e cita, a riguardo, la cosiddetta teoria del trickle-down, che significa “gocciolamento”, mutuata da una vecchia intuizione di Georg Simmel che nel 1904 l’aveva applicata alla moda, sostenendo che i gusti delle classi più elevate si sarebbero, con il tempo, trasferiti anche verso le classi più basse, con un beneficio diciamo così “stilistico” ed “estetico” generale. “Un’ottantina di anni più tardi – sottolinea Revelli – il meccanismo è stato traslato al campo dell’economica” per sostenere che i benefici goduti in un primo momento dalle classi più ricche sarebbero poi fatalmente discesi verso quelle più povere. Un paradigma smentito clamorosamente dai fatti in questi decenni, soprattutto nelle società occidentali.
Questa teoria è stata esplicitata graficamente dalla curva di Laffer, un economista abbastanza sconosciuto vicino però allo staff presidenziale degli Stati Uniti negli anni ’70, e da quella di Kuznets, figura ben più autorevole della precedente insignito del Premio Nobel nel 1971. Sia pure in modi e finalità diverse, le due curve sostenevano l’impossibilità di continuare a procedere con una tassazione oltre la quale si sarebbe disincentivata ogni possibile crescita economica. Nel caso di Kuznets, la sua teoria veniva estesa anche alla problematica ambientale, la quale affermava che il degrado ambientale era confinato ad una fase precoce dello sviluppo. Insomma “più sviluppo, meno danni ambientali”, era il risultato di questo ragionamento, smentito, tanto per fare un esempio, dalla pesante responsabilità dei paesi più emancipati nei riguardi dell’effetto serra, ben maggiore di quelli più arretrati.
Per invertire la rotta fin qui descritta Marco Revelli fa ancora riferimento al mai abbastanza rimpianto Keynes. L’autore richiama la metafora dell’economista sulle giraffe, quella “parabola zoologica” secondo la quale anche quelle dal collo corto hanno diritto in un branco a nutrirsi e a non essere vittime della voracità di chi, grazie al collo più lungo, riesce a fare piazza pulita di tutto il nutrimento disponibile. Ed ecco che a questo punto appare dirimente introdurre il concetto di solidarietà per ridare allo Stato quel ruolo positivo di regolatore dell’economia e dello sviluppo e alla società quella dimensione etica e appunto solidale della quale si sente molto la mancanza.
Una parola “proscritta”
Stefano Rodotà affronta il tema con la sua consueta perizia dividendo il volume in undici punti e sottolineando fin dall’inizio come la parola “solidarietà” sia diventata “proscritta”, “non più tratto che lega benevolmente le persone, ma delitto, appunto, di solidarietà, quando i comportamenti di accettazione dell’altro, dell’immigrato irregolare ad esempio, vengono considerati illegittimi e si prevedono addirittura sanzioni penali per chi vuol garantirgli diritti fondamentali”. Eppure è da secoli che insigni pensatori mettono in guardia sulla necessità che lo Stato si doti di regole certe per fare in modo che non prevalga la discriminazione, andando dunque oltre la dimensione caritatevole. Basti citare Montesquieu in un discorso del 1748 riportato da Rodotà, dove il filosofo francese ammonisce lo Stato sostenendo che “qualche elemosina fatta a un uomo nudo per le strade non basta ad adempiere gli obblighi dello Stato, il quale deve a tutti i cittadini la sussistenza assicurata”.
Andando ancora più indietro nel tempo il giurista ricorda quanto scrisse Etienne de La Boétie nel 1549 quando sosteneva, parlando della natura, che questa “nella distribuzione dei suoi doni, ha avvantaggiato nel corpo o nello spirito gli uni piuttosto che gli altri” senza tuttavia volerci mettere “in questo mondo come in un campo di battaglia”. Oppure, qualche decennio dopo, nel 1660, John Locke quando nel primo dei Due trattati sul governo afferma: “Come la giustizia dà ad un uomo diritto alla proprietà di ciò che ha prodotto con il suo onesto lavoro; così la carità dà diritto ad ogni uomo a quella parte della ricchezza di un altro che gli è necessaria per fuggire una situazione di estremo bisogno…”.
Queste considerazioni dovrebbero essere sufficienti per fare piazza pulita di ogni idea – dice Rodotà – “di società concepita come naturalmente armonica, e quindi capace di autocorrezione di fronte alla privazione di beni fondamentali”. Nei tempi odierni il concetto di solidarietà rischia di essere ricacciato nell’alveo della compassione, della carità, come avviene nella politica statunitense che resta confinata in una logica caritatevole che mette ai margini “il diritto della persona” e al centro quella della “proprietà”. Se nel “secolo breve” le cose sono andate diversamente lo si deve al grande ruolo giocato dal movimento operaio che ha permesso la promulgazione di costituzioni molto avanzate in questo senso. La mancanza ora di “un soggetto in grado di svolgere quel ruolo”, scrive Rodotà, non ci deve impedire di individuare “proprio nella solidarietà uno strumento che può consentire di contrastare una lotta condotta da una classe imprenditoriale proprio per ridimensionare i diritti sociali”.
A questo ruolo che può giocare la solidarietà se ne aggiunge un altro finalizzato alla ridefinizione del concetto di cittadinanza che in Europa può e deve andare oltre quello di nazionalità così da trasformare il Vecchio continente in “un’Europa dei cittadini e non solo dei mercati”. Solo così si potrà rimediare al vulnus creato dall’Europa che ha escluso la Carta dei diritti fondamentali dal quadro costituzionale europeo, ponendo in tal modo le premesse della odierna e intollerabile situazione dove regna l’odio tra paesi creditori e paesi debitori in luogo di un necessario rapporto solidale. Tutto ciò dovrebbe spingere le varie nazioni a introdurre o a rafforzare nelle proprie costituzioni quei punti riguardanti proprio la “solidarietà” facendo a meno di quel “pareggio di bilancio” che paesi solerti come il nostro si sono affrettati a introdurre.
A conclusione di questo lungo ragionamento vale la pena ricordare l’ultimo film dei fratelli belgi Dardenne, Due giorni, una notte, spesso citato proprio da Rodotà nelle interviste da lui rilasciate sul libro. I due cineasti raccontano con perizia la storia di una lavoratrice che a fatica cerca la solidarietà appunto dei colleghi per evitare il suo licenziamento. Non ottiene esattamente quello che vuole ma apre una breccia importante nel muro dell’indifferenza e dell’egoismo. Questo è il punto dal quale ripartire. Tenendo conto, come scrive Rodotà, che “la produzione di solidarietà non è a costo zero” ed “esige capitale sociale e risorse finanziarie”. Come dire che la solidarietà appunto deve tornare a essere un elemento strutturale nelle scelte politiche di chi una volta rappresentava le classi sociali più deboli della società. Altrimenti a vincere sarà la “barbarie” come sosteneva nel 1916 Rosa Luxemburg non a caso citata da Stefano Rodotà all’inizio di questa sua ultima fatica.