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La riduzione dell’orario di lavoro è stata la questione che la Ig Metall, il sindacato dei metalmeccanici tedeschi, ha posto al centro dell’ultimo rinnovo del contratto. Già nel 2003 era stata aperta una vertenza per l’estensione delle 35 ore settimanali agli stabilimenti dell’ex Germania dell’Est. Nonostante uno sciopero molto impegnativo di quattro settimane e la disponibilità di alcuni governi dei Lander orientali, allora aveva prevalso la posizione ricattatoria dell'Associazione degli imprenditori: questi avevano detto no, perché l’orario ridotto sarebbe andato a scapito degli investimenti in un’area depressa, anzi avrebbe costretto le imprese a trasferirsi in altri paesi.
La sconfitta del sindacato mise così ai margini del dibattito politico e sindacale, in Germania e non solo, la questione della riduzione dell’orario, che aveva avuto il suo punto culminante negli anni novanta del secolo scorso con la conquista delle 35 ore settimanali. L’accordo di quest’anno prevede per i lavoratori a tempo indeterminato il diritto di ridurre, per un periodo limitato da 6 a 24 mesi, il proprio orario di lavoro settimanale a 28 ore (in alcuni casi con integrazioni salariali) e la possibilità di lavorare 40 ore settimanali invece di 35. Gli apprendisti avranno diritto a due giorni di permesso per preparare il loro esame finale. Rimane immutata la differenza di orario tra Ovest ed Est, dove la settimana è ancora di 38 ore, differenza che nella fase di discussione della piattaforma i lavoratori avevano chiesto con forza di superare.
La novità di grande importanza è che la flessibilità prevista per l’orario di lavoro è basata su una scelta volontaria e personale. La contrattazione promuove, così, un’uguaglianza di opportunità tra esigenze diverse in una prospettiva di maggiore autonomia nel lavoro. L’accordo si colloca, però, in un contesto dove la tendenza dominante è la de-standardizzazione degli orari, in cui sono presenti stabilità e precarietà, orari corti e tempi di lavoro lunghi. È la conseguenza di quanto è successo dopo la durissima crisi del 2008, che ha visto aumentare la differenziazione degli orari di fatto per il diffondersi dei nuovi sistemi di produzione flessibili di derivazione toyotista: il Wcm (World class manufacturing) con cui Sergio Marchionne ha riorganizzato la Fca e la lean production, che è il metodo che applica Del Vecchio alla Luxottica.
Uno dei cardini del Toyota production system è, infatti, il just in time, che ha capovolto le rigidità tayloriste in flessibilità. In questa prospettiva, bisogna produrre solo quando e quanto è necessario e questo lo decide il mercato, per cui la produzione deve essere pull, tirata dal cliente. Si tratta, in breve, dell’inverso del toyotismo rispetto alla produzione di massa. Nelle aziende giapponesi, già negli anni ottanta, i lavoratori erano divisi in cinque gironi: i dipendenti a tempo indeterminato con buoni salari ed esteso welfare aziendale; gli occupati con contratto a tempo determinato rinnovabile ogni sei mesi; i lavoratori assunti in occasione di picchi produttivi e per stagionalità; i lavoratori part time, soprattutto donne; e, infine, i lavoratori occasionali, in genere studenti, senza diritti. In Giappone, secondo un’indagine del 2012, nelle imprese sotto i 100 dipendenti i lavoratori regolari a tempo pieno erano solo il 37,35 e in quelle sopra i 1.000 il 53%.
Questa radicale trasformazione nel modo di produrre e di lavorare provoca non solo discontinuità, instabilità, insicurezza in chi non ha un lavoro regolare, ma anche una spinta al superlavoro per i lavoratori stabili. In Giappone sono oltre il 12% (il doppio rispetto ai precari); fanno orari che vanno spesso molto oltre le 48 ore settimanali; rinunciano in tutto o in parte alle ferie e per questo si ammalano e talora muoiono. Le Trade Unions denunciano che anche in Gran Bretagna quattro milioni di operai e impiegati lavorano più di 48 ore settimanali e lo stesso superamento dell’orario legale si verifica per gli occupati stabili americani. Similmente, la nuova legge del lavoro francese (2017) permette in caso di “emergenza” e con un accordo aziendale di estendere l’orario settimanale a 60 ore.
In Italia, il quadro normativo si può così riassumere: 40 ore settimanali nel settore privato e 36 nel pubblico; oltre alle ferie, ci sono per i privati permessi retribuiti (8/12 giornate). Nei contratti ci sono accordi sia per orari ridotti nei cicli continui e per i turnisti, sia per l’incremento delle ore di straordinario obbligatorio. Ci sono, inoltre, limitate forme di flessibilità individuale per gli orari di ingresso e di uscita e vi è la possibilità di trasformare lo straordinario in riposi compensativi (banche ore).
Finita la lunga stagione dello scambio tra flessibilità e riduzione d’orario, che aveva portato a forti riduzioni d’orario con il corrispettivo aumento dei turni di lavoro e la loro estensione al sabato e alla domenica (significativo il caso del settore tessile), ora la flessibilità riguarda l’incremento degli straordinari, gli orari variabili, la cassa integrazione nei periodi di crisi, i contratti di lavoro a termine o precari. Per le imprese, soprattutto quelle che lavorano secondo il Wcm (molto diffuso nell’automotive) o applicano la lean production, la gestione del tempo è strategica.
Deve essere un tempo senza limiti. Si moltiplicano, così, non solo nei servizi e nel commercio, ma anche nella manifattura, turnazioni con fasce di orario in cui sono comprese, h 24, la notte, il sabato, la domenica. All’interno delle aziende gli orari si articolano e si frammentano tra le varie linee di prodotto e per venire incontro alle diverse esigenze dei clienti. La crescita del part time involontario ne è un aspetto. La variazione frequente degli orari di lavoro crea una condizione di incertezza che spinge a lavorare a pieno ritmo, secondo il principio del “miglioramento continuo” (il kaizen toyotista), soprattutto se si lavora in team, poiché nel lavoro di squadra si fondono e si confondono cooperazione e competizione.
Nel nuovo terziario, dalle software house alle società di servizi alle imprese e di assistenza ai clienti, si sono aboliti, per alcuni settori di quadri e tecnici, il cartellino e l’obbligo di presenza. Il tempo lavorato diventa una misura meno stringente della prestazione lavorativa, contano di più il rispetto dei tempi di realizzazione degli obiettivi, la risposta just in time alle esigenze dei clienti, la reperibilità nel caso di un guasto, che si è dilatata con gli interventi da remoto.
Sono i problemi che accompagnano le pratiche dello smart working. In Italia, secondo le stime del Politecnico di Milano, gli smart worker sono poco più di 300 mila, per il 70% maschi, concentrati nelle grandi aziende del privato. L’Osservatorio dell’innovazione digitale del Politecnico calcola che lavorare senza vincoli di luogo e di tempo, dandosi invece obiettivi allineati alle priorità strategiche dell’azienda porta a incrementi medi di produttività dell’ordine del 15%. La riduzione dei tempi e dei costi di trasferimento, secondo la Doxa, fa guadagnare circa 60 minuti per ogni giornata di lavoro da remoto. Una parte di questo guadagno viene però reinvestito nel lavorare di più, perché lavorare fisicamente da soli, ma in un contesto di relazioni aziendali, incrementa competitività e ansia da prestazione. Ne consegue che si rinuncia alle ore di straordinario; calano i giorni di malattia; crolla il tasso di assenteismo.
In questi nuovi spazi di flessibilità opera però anche l’esigenza forte e diffusa dei lavoratori di personalizzare il loro tempo di lavoro, sia per avere più autonomia nella gestione del processo lavorativo, sia per ottenere un miglior equilibrio tra vita e lavoro. Conciliare la domanda di flessibilità delle imprese e l’offerta di personalizzazione del tempo dei lavoratori è esigenza centrale per una ripresa di iniziativa sindacale.
L’accordo della Ig Metall mette in evidenza il nodo di fondo da affrontare: la contraddizione, il conflitto tra due libertà: quella del lavoratore di chiedere e di ottenere la riduzione dell’orario a propria discrezione (anche se non in modo assoluto, ma per seri motivi) e quindi di vedersi aprire un percorso di autogoverno non solo del tempo di vita, ma della stessa prestazione lavorativa, e quella dell’impresa di rendere in ogni momento flessibile la propria organizzazione e, quindi, di far lavorare di più.
Ci sono due grandi questioni da affrontare. La prima è relativa all’organizzazione del lavoro. Occorre forzare sulla via dell’autonomia nel lavoro, intervenendo sulla promessa disattesa della partecipazione toyotista. Il problem solving, l’assunzione di responsabilità, il lavoro in team, la polivalenza, devono essere parte di un processo di crescita di pratiche di autogoverno del lavoro, mentre ora generano spesso disorientamento, incertezza del proprio livello di responsabilità e ansia nel prendere decisioni, conflittualità e competizione.
La seconda questione riguarda il processo di liberazione dal lavoro subordinato. Ora la tecnologia offre la possibilità di rendere flessibile la produzione senza più l’obbligo di piegare a essa la flessibilità del lavoro. La questione centrale non è più solo la riduzione dell’orario di lavoro (lavorare 24 ore settimanali con part time a scorrimento occupa la vita quanto e talora più delle 8 ore giornaliere), ma il diritto individuale e universale di alternare lavoro e formazione per tutta la vita e di poter scegliere diverse occupazioni fuori dalla giostra dei lavori precari e del miglioramento continuo. Condizione cruciale è contrastare la tendenza non a lavorare meglio, ma a lavorare di più.
Mario Sai è responsabile dell’ufficio studi della Camera del lavoro di Milano