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Negli ultimi trent’anni è diventata un’ossessione: il “nuovo”. Nuovi leader, nuova classe dirigente, nuove facce. Come se “nuovo” fosse un sostantivo, anziché un aggettivo. Ogni “innovatore”, naturalmente, ha annunciato la “svolta”. E di cambiamenti “epocali” ne sono stati prospettati talmente tanti che si fa fatica a ricordarli tutti. La costante, però, è sempre stata la stessa: un nuovo leader che avrebbe cambiato tutto. Certo, ci sono state differenze anche profonde, ma il senso generale non è mai stato troppo diverso: arrivo io e sistemo tutto.
Tutti si sono definiti liberali e progressisti, moderati e riformisti, laici e cattolici, rappresentanti dei lavoratori e degli imprenditori, annunciando nuovi Eldorado: meno tasse, più lavoro, stipendi più alti, più giustizia, sanità più efficiente, più servizi sociali, blocco dei prezzi, blocco dei mutui, città più sicure, università migliori, più ponti, più strade. Insomma, più promesse per tutti, poi si vedrà. In linguistica si chiama “opposizione partecipativa”: essere una cosa e il suo opposto, senza distinzioni e senza gerarchie. Una miscela di iperdemocraticismo plebiscitario e di iperpersonalizzazione della politica, entrambi favoriti da ciò che è stata variamente definita come telecrazia, telepopulismo, videopolitica.
Anche intorno all’idea di “classe”, gli “innovatori” si sono periodicamente esercitati a celebrarne la fine, ritenendole inadeguate a cogliere il profilo dinamico delle trasformazioni e delle tensioni che attraversano le società contemporanee. Ad alimentare il mito della fine delle “classi”, certamente hanno contribuito le trasformazioni che hanno riguardato la struttura economica e sociale, con la vorticosa terziarizzazione dell'occupazione, che ha segnato, con la fine del secolo, il declino dei settori industriali con più alta occupazione operaia. Ma se c’è necessità di una nuova griglia interpretativa, capace di cogliere i paradigmi della nuova società, i suoi nuovi perimetri e le sue nuove istanze, questo non significa che non esistano più le classi sociali, né che non ci siano più politiche di destra e di sinistra, come hanno dimostrato numerosi studi internazionali proprio in questi anni.
D’altronde, le “classi” non descrivono solo una posizione gerarchica riferita all’occupazione e al reddito, non sono semplicemente un’unità di misura, ma rappresentano un sistema complesso di relazioni e le nuove asimmetrie di potere tra finanza, produzione e lavoro, le hanno tutt’altro che estinte. Ciò che sembra essere mutato profondamente, invece, è proprio il primato relativo del lavoro, la perdita di centralità politica rispetto all’insieme di conflitti che attraversano le società contemporanee. Nella “nuova” politica, il lavoro non è più il pentagramma su cui sono scritti i fini generali, e i discorsi pubblici dei leader non ambiscono più a scandire il ritmo dei processi di produzione, non tentano più di coniugare il rapporto fra capitale e lavoro. La perdita della centralità del lavoro ha reso meno rappresentativi i partiti, più fragili le istituzioni, più soli i lavoratori e più deboli le imprese. Non è un caso che da vent’anni, nel nostro paese, manchi una vera politica industriale. Il lavoro non è più l’unità di misura dell’interpretazione sociale ed economica che orientava le scelte delle grandi famiglie politiche del passato: ne hanno preso il posto politiche asincrone che hanno necessità di contabilizzare il consenso in tempi brevi, anzi brevissimi.
I partiti del Novecento potevano permettersi orizzonti e visioni di campo lungo, che avevano corrispondenza nei cicli di vita economici, mentre le nuove leadership del post-Novecento, individuali e solitarie, hanno bisogno di interpretare l’onda emotiva, assecondandola e alimentandone le pulsioni, e di alimentarsi di un consenso che deve essere rendicontato in fretta. In settimane, se non in giorni. La fine della centralità del lavoro ha portato a non far più coincidere i cicli di vita economici e quelli politici. Con il risultato che gli uni non dipendono più dagli altri e sono cresciuti gli spazi di rarefazione politica e d’ingovernabilità dell’economia. È un pensiero debole quello che pervade la “nuova politica”, dove il relativismo finisce per essere una sorta di premessa largamente condivisa, mentre la crisi continua a bruciare i posti di lavoro, i redditi delle famiglie e la capacità produttiva delle imprese. Se quella che stiamo combattendo è una guerra, allora possiamo tranquillamente dire che la stiamo perdendo, visto che non riusciamo a uscire dalla recessione e continuiamo ad arretrare cedendo il terreno delle conquiste sociali e civili. Tanto che viene da chiedersi se, al termine della crisi, l'Italia avrà ancora uno Stato sociale; se i principali architravi del welfare saranno ancora in piedi o stiamo assistendo a una progressiva finanziarizzazione dei servizi, come avviene negli Stati Uniti attraverso le assicurazioni private.
In questi anni, le nuove leadership individuali si sono caratterizzate anche per aver progressivamente ristretto gli spazi di dialogo con i sindacati, rivendicando ostilità verso ogni ipotesi concertativa. Ma forse pochi sanno (o ricordano) che l'Italia è il paese europeo in cui gli assetti concertativi, oltre a essere longevi e resistenti nel tempo, hanno prodotto risultati importanti. Basta ricordare le politiche sui redditi che hanno permesso di attenuare gli effetti della pesante recessione del 1992-93. O quelle successive all'entrata dell'Italia nel sistema di cambi fissi (1996), che hanno ammortizzato gli effetti recessivi di politiche macroeconomiche restrittive. È sempre grazie alla concertazione che il sistema italiano di relazioni industriali, tradizionalmente privo di regole, è cresciuto e ha assunto lineamenti ben definiti, con una chiara suddivisione del lavoro nei diversi livelli contrattuali.
D'altronde, la concertazione è un metodo che riguarda la politica e che consente, oltretutto, ai governi di fare scelte difficili, ad alto rischio di conflittualità sociale. Come quelle che, negli anni settanta e ottanta, riguardavano la moderazione salariale e nei novanta il ridimensionamento dei sistemi di welfare e la liberalizzazione del mercato del lavoro. I fallimenti degli assetti concertativi in alcuni paesi, come l'abbandono della contrattazione centralizzata in Svezia nel 1983 e la fine dell'esperimento di Azione concertata in Germania nel 1977, sono da attribuirsi alla scelta degli imprenditori di abbandonare unilateralmente il tavolo delle trattative, nel momento in cui non ritenevano più conveniente trovare un accordo. Il sindacato italiano ha mostrato, negli ultimi anni, capacità di prevenire il conflitto e mobilitare il consenso anche rispetto a scelte fortemente impopolari. In altre parole, dal dopoguerra in poi l’economia italiana è cresciuta e si è modernizzata insieme allo sviluppo dei diritti di cittadinanza e dei lavoratori. Il nuovo, quindi, non può necessariamente essere rappresentato dalla cancellazione di tutto ciò che, per cinquant’anni, ha aiutato il progresso.
Anche perché, mentre il livello politico soffre di una crisi decennale e la soluzione non sembra immediata, la destrutturazione progressiva del modello di welfare rischia di compromettere ogni tentativo di risalita. Il nostro paese vive quotidianamente esposto all'ingordigia della speculazione finanziaria e per uscire dall'impasse generale ha bisogno di partiti forti, di una classe politica capace e di un sistema di rappresentanza sociale solido. D'altronde, lo sviluppo non si fa per decreto e, per vincere la guerra, c'è bisogno della società e dei suoi rappresentanti. La manifestazione della Cgil del 25 ottobre ha messo in chiaro tutto questo. E chi pensava che nessuno rappresentasse più nessuno, evidentemente ha fatto mali i suoi conti. Adesso il paese ha necessità di dare avvio a una stagione dove l'aggettivo “nuovo” qualifichi il sostantivo “diritto”. Diritto a una cittadinanza piena. Diritto a veder riconosciuto il lavoro come fondamento della nostra società. Diritto a veder rappresentati i bisogni dei lavoratori in forme organizzate. Nulla più di quanto già è scritto nella nostra Costituzione.
*presidente di Tecné