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L’anticipazione della presentazione del Rapporto Svimez sulla situazione economica del Mezzogiorno avvenuta in piena estata ha avuto, al contrario degli anni scorsi, una discreta eco nel paese. In passato infatti il Rapporto veniva sostanzialmente ignorato dal potere politico e dalla grande stampa. E l’indifferenza cresceva in rapporto alla gravità della situazione denunciata dagli esperti: situazione espressa in primo luogo da tassi crescenti di disoccupazione, soprattutto giovanile, e dalla concentrazione estrema del fenomeno nelle regioni meridionali.
Naturalmente, le tematiche affrontate dal Rapporto non si sono mai limitate alla descrizione o alla denuncia della gravità del contesto – dall’aumento sistematico ormai da un decennio della disoccupazione e della fuoriuscita dal mercato del lavoro, alla persistente alta incidenza della povertà relativa e assoluta, al cambiamento nella struttura della popolazione che ha fatto giustamente parlare di “catastrofe demografica” –, ma hanno sempre riguardato anche le cause dei fenomeni: una sistematica carenza di investimenti pubblici e privati, una crescente povertà delle strutture industriali, con cessazione anche di attività, e un’assenza di politiche di sviluppo industriale e in generale di sviluppo dell’economia locale.
Purtroppo, la maggiore attenzione di cui ha goduto quest’anno l’anticipazione del Rapporto non ha portato in generale a significative riflessioni o a una qualche forma di impegno dell’esecutivo in carica. Al contrario, le prese di posizioni governative hanno evitato di entrare nel merito dell’analisi e delle proposte della Svimez – che sottolinea come l’aumento del divario tra Nord e Sud e la concentrazione degli investimenti pubblici fuori dal Mezzogiorno siano frutto di decisioni politiche, con rilevanti implicazioni in termini di diseguaglianza sociale, oltre che territoriale.
Per altro, la risposta irritata del governo si è riferita non tanto alla Svimez e al suo contributo, quanto ai pochi giornalisti e intellettuali che hanno mostrato di prendere sul serio la questione, scegliendo di spostare la partita sul circo mediatico e presentando il lavoro della Svimez come una sorta di denuncia per partito preso, un’ennesima espressione di paralizzante pessimismo. Insomma, come il solito lamento dei meridionali. Purtroppo, alle irritate reazioni governative si è affiancato un coro di opinionisti di diversa formazione e competenza che, pur dopo aver valutato in generale positivamente l’analisi, ha provveduto a spiegare che i meridionali devono cambiare atteggiamento, assumersi le proprie responsabilità e così via di seguito, senza alcuna attenzione alle scelte discriminatorie in materia di politica economica.
L’esistenza di problemi strutturali dell’economia, dell’impoverimento delle risorse per mancanza di investimenti e di un qualche indirizzo di politica economica non sembra essere in agenda. E nel frattempo la disoccupazione meridionale aumenta, mentre l’unico sbocco sembra essere quello dell’emigrazione. In questo isolamento si è trovata la Svimez (vera vox clamans in deserto) negli ultimi 10 o 15 anni. Ma ora la situazione è arrivata a livelli davvero insopportabili. Ed è per questo che appare stupefacente l’orientamento governativo volto a esorcizzare il problema e a garantire ricette miracolose più che ad affrontarlo.
C’è da dire tuttavia che negli ultimi tempi non tutti sono stati concordi nel negare l’esistenza o nel sottovalutare le cause strutturali dei problemi, in primo luogo della disoccupazione e in generale del mercato del lavoro. A cominciare dalla Cgil, che qualche anno addietro aveva lanciato il suo ambizioso Piano del lavoro, una proposta di interventi in materia di politica economica espansiva, con indicazione di investimenti in diversi settori, che avrebbe implicato un indirizzo della spesa e in generale della politica economica. Non solo uno sforzo analitico a dimostrazione che esistono alternative possibili economicamente nell’indirizzo della spesa pubblica, bensì una proposta al governo, un progetto operativo per lo sviluppo economico e occupazionale quale contenuto di una strategia e di azioni rivendicative.
La proposta fu ignorata dal governo Monti, in carica all’epoca in cui fu formulata, e da quello successivo guidato da Letta, che non si posero grossi problemi in materia di sviluppo economico e occupazionale. Ma, dopo di loro, ben più grave è stato il comportamento del governo Renzi. Ignorando patentemente l’importante iniziativa sindacale, ha lanciato una proposta di legge sul lavoro per la quale viene usata la stravagante denominazione di Jobs Act, che pretende di rappresentare un vero e proprio piano per l’occupazione: un piano che però non ha niente a che vedere con quello della Cgil. Anzi, la sostanza del piano di Renzi (che ora è legge dello Stato), dell’act, per dirla con lui, consiste in primo luogo in un nuovo, peggiorativo, quadro delle relazioni sindacali: un intervento che si basa tutto sulla presunta capacità di promozione dell’occupazione da parte degli interventi di flessibilizzazione del mercato del lavoro.
L’intero impianto del Jobs Act è basato su di una versione all’italiana del binomio “insider-ousider”. Gli insider sono quelli che una volta da noi si chiamavano garantiti. Sulla base di questa versione, il potere contrattuale e la protezione legislativa accordati ai “garantiti”, le vituperate norme di protezione dell’impiego, riducono la libertà delle imprese e i loro margini di profitto, riducendo la possibilità di nuovi investimenti e nuova occupazione. Per questo, secondo il governo, solo rendendo più facili i licenziamenti e prorogando i contratti che istituzionalizzano la precarietà, e magari grazie all’aiuto di qualche incentivo finanziario alle imprese, l’occupazione potrà aumentare. Una visione astratta, che prescinde totalmente dai problemi economici del Mezzogiorno, tutti con carattere strutturale: problemi di povertà e crisi dell’apparato produttivo, problemi connessi al dualismo territoriale nel nostro paese, problemi dovuti alla carenza di investimenti pubblici e privati. Insomma, problemi rispetto ai quali ulteriori iniezioni di flessibilità, quali sono quelli proposti e magnificati da Renzi e dai suoi mentori, possono far ben poco. Con una disoccupazione meridionale superiore al 20%, con una disoccupazione giovanile meridionale (15-24 anni) pari ai due terzi delle forze di lavoro nella stessa fascia di età, la proposta del piano di Renzi, tutta basata sulla flessibilità, sembra venire da un altro mondo.
Per quel che riguarda poi la proposta che prevede contributi (lauti) alle imprese che assumeranno, va ricordato che le imprese capaci di usufruirne stanno proprio nelle aree dove meno grave è la disoccupazione, cioè fuori dal Mezzogiorno. È vero che questo incentivo in linea teorica può produrre qualche occupato stabile in più nel breve periodo (nella fase iniziale): e questo – ancorché non ai livelli sognati dal ministro Poletti – sta già avvenendo. Contributi alle imprese per nuove assunzioni o stabilizzazioni hanno sempre avuto nel breve periodo effetti positivi sull’occupazione. Ma ciò, come sottolineano molti economisti, e come in generale la storia insegna, dura fin quando durano i finanziamenti, poi in generale l’effetto finisce in mancanza di altri stimoli.
In conclusione, è evidente che il nuovo quadro di gestione del mercato del lavoro non favorisce in alcun modo il Mezzogiorno. C’è necessità di cambiare rotta rispetto a investimenti pubblici e privati, a indirizzi infrastrutturali, e c’è bisogno anche di un qualche piano di intervento straordinario per il lavoro, il reddito e la formazione dei giovani, soprattutto di quelli che con una definizione colpevolizzante vengono definiti Neet (persone che non sono impegnate né nello studio, né nella ricerca di un lavoro) e che rappresentano la più vasta componente della disoccupazione italiana. Per loro il Jobs Act, nei fatti, non propone altro che l’emigrazione.
* Professore ordinario di Sociologia del lavoro alla Sapienza Università di Roma