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Ericsson, Rai, Almaviva. Tre vertenze assai complesse, emblema di un settore, quello delle tlc, che attraversa grandi trasformazioni sul piano dell'innovazione tecnologica, ma anche grandi contraddizioni sul versante dei diritti dei lavoratori. Di questo, ha discusso oggi ai microfoni di RadioArticolo1, Fabrizio Solari, segretario generale Slc Cgil.
“Il 18 dicembre scorso, con Fistel e Uilcom, abbiamo scritto al ministro Calenda, chiedendo l’impegno a evitare il restringimento del perimetro di Ericsson Italia, annunciato da un piano industriale ‘lacrime e sangue’, che prevede un migliaio di esuberi e una riduzione del 30% del salario per i lavoratori superstiti, dopo la disdetta dell’integrativo. Per tutta risposta, malgrado le sollecitazioni del dicastero dello Sviluppo economico, la multinazionale ha annunciato poi l'uscita dal contratto nazionale delle telecomunicazioni”, ha affermato il dirigente sindacale.
“Il gruppo ha parlato anche di un piano di rientro, con la costituzione di una nuova azienda, controllata sempre da Ericsson, dove collocare alcune centinaia di lavoratori, cui applicare un contratto diverso da quello delle tlc. Quindi, non stiamo parlando banalmente dell'uscita di Ericsson dal ccnl, ma di una cosa più complessa. La vicenda dimostra che è partita una ristrutturazione del settore dal segno regressivo, dove si perde salario, tutele e occupazione. L'altro segnale preoccupante, è che, malgrado si sia riusciti con molta fatica ad aprire un tavolo al Mise, e che fra Natale e Capodanno ci fosse un impegno a proseguire il negoziato in sede tecnica per trovare soluzioni alternative, è arrivata la lettera di disdetta del ccnl di settore. Una cosa del genere non si era mai vista a quel livello”, ha continuato il sindacalista.
“Molte aziende pensano di poter competere riducendo salari, diritti e tutele dei lavoratori, cosa del tutto inaccettabile per le stesse tlc, considerate strategiche per lo sviluppo, dove si parla d’industria 4.0, digitale, algoritmo, tecnologie dell’innovazione. Il caso Ericsson è emblematico del disastro che rischia il sistema Paese da una situazione del genere. Il settore attraversa una fase di riassestamento, ma se interviene con la vecchia logica del taglio del costo del lavoro, significa che non ha imparato nulla da quel che è successo in questi anni. L'avvento delle nuove tecnologie cambia il modo di lavorare, soprattutto in un settore a contatto diretto con l'innovazione. Speriamo di non dover inaugurare una stagione di conflittualità esasperata, in un mondo, che non se la può permettere per ovvii motivi”, ha proseguito il leader Slc Cgil.
“Passando alla Rai, mentre si discute di rinnovo contrattuale, il Pd annuncia in apertura di campagna elettorale l’abolizione del canone, possibile avvio alla privatizzazione dell’azienda. Per legge, la Rai ha un plafond sulla pubblicità, compensata da contratto di servizio e canone. Se si toglie il canone, l’azienda precipita in un marasma totale, perché non è più in grado di programmare il suo futuro. Tutto ciò, in una situazione dove siamo alla vigilia della terza rivoluzione del comparto, dopo le prime due caratterizzate dal duopolio di Mediaset e dall’avvento delle pay tv. Ora sta arrivando la televisione on demand - dove ognuno si potrà fare il palinsesto che vuole - che richiede grandi investimenti, grandi contenuti e grandi platee di utenti, e prevede anche una capacità d’innovazione importante, inclusa tanta ricerca".
C'è una stretta parentela con il settore delle tlc, ha aggiunto il numero uno Slc, "ma il governo non ha una politica in grado di regolare neppure l'evoluzione tecnologica, al punto che siamo l'unico Paese del mondo che passa, nel giro di qualche mese, da un’arretratezza su banda larga e fibra ottica alla possibilità di avere due reti di nuova generazione per Open Fiber e altri operatori come Tim, rischiando in molti casi addirittura di duplicare la rete. La Rai è dentro tale vortice, ed essendo la più grande azienda culturale italiana, meriterebbe un po' più di attenzione. Così come la meriterebbero i lavoratori di questa azienda, perché alla fine si scaricano anche su di loro le contraddizioni del governo”.
“Per quanto riguarda i call center in generale e il caso Almaviva in particolare, bisogna ricordare che in quel comparto il costo del lavoro supera l’80% dei costi totale delle aziende. Ragion per cui, non lo si può comprimere al di sotto di tale livello. Per questo, il decreto ministeriale, approvato il 23 dicembre scorso, e la recente sentenza della magistratura sul reintegro di lavoratori, qualche spiraglio positivo lo porta con sé. E speriamo di non dover più assistere alla giungla di casi come quello delle lavoratrici del call center di Taranto, pagate 92 euro al mese, che a dicembre hanno denunciato tutto alla sede locale della nostra categoria. C’è un contratto nazionale di lavoro che va applicato, e chiunque degli attori presenti, dai committenti alle aziende che gestiscono il servizio, devono aver presente che questo è un punto centrale irrinunciabile, perché quel servizio immateriale che si vende per telefono è un pezzo del prodotto finale, e quindi bisognerà ragionare di un’organizzazione del lavoro che punti di più alla qualità, all’efficienza, alla capacità di dare risposte adeguate a chi sta dall’altra parte del filo o della rete e non a comprimere i costi o a portare tutto in Romania”, ha concluso l’esponente Slc.