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"Sono d'accordo con il documento Cgil che parla d'innalzare l'età dell'obbligo scolastico, ma va rivisto tutto l'impianto scolastico attuale, che crea dispersione. Bisogna superare la scuola di classe, attraverso la creatività, la qualità e l'innovazione, che sono la vera molla del sapere ed é anche la chiave per aumentare la produttività individuale. Tutto questo passa attraverso il superamento dell'obbligo, per poter arrivare alla scuola di tutti. In tale ambito, la formazione professionale è essenziale, perchè significa legare il sapere al lavoro, dentro tutte le pieghe del fare: ci vuole un'altra scuola per migliorare anche il mondo del lavoro". È quanto ha sostenuto Luigi Berlinguer, ex ministro dell'Istruzione, in apertura dei lavori del convegno organizzato da Cgil e Flc, sul binomio 'Scuola-lavoro, le chiavi del futuro', che si è tenuto oggi a Roma, presso il Centro congressi Cavour.
Gianna Fracassi, segretaria confederale Cgil, ha presentato le proposte del sindacato di corso Italia in materia scolastica. "La sfida del lavoro necessita di basi solide, indispensabili per affrontare il cambiamento, l'innovazione, ma anche la discontinuità. Con il Piano del lavoro affermiamo che la scuola deve cambiare e serve una grande rivoluzione culturale che metta al centro il valore del sapere e quello della qualità del lavoro. Basta con gli interventi frammentari sulla scuola, ci vuole una vera riforma, per superare i problemi che affliggono il settore. Tra gli obiettivi che abbiamo individuato, quello più urgente è l'innalzamento del livello d'istruzione con l'obbligo scolastico a 18 anni, necessario per acquisire quelle competenze che ci rendono pronti per il lavoro, oltrechè cittadini consapevoli: ciò significa strutturare diversamente il sistema, affrontando anche la diseguaglianza nell'accesso al sapere, sconfiggendo la piaga della dispersione scolastica e garantendo il diritto allo studio. Sempre più famiglie, impoverite dalla crisi, hanno difficoltà a garantire ai propri figli non solo il percorso universitario, ma anche il normale percorso d'istruzione. Al contrario, bisogna garantire la gratuità dell'intero percorso scolastico, superando le incertezze sulle risorse che si ripropongono ogni anno per via dei tagli".
La dirigente sindacale ha così proseguito: "Si deve creare un diverso rapporto tra scuola e lavoro, con la messa a punto di un sistema che includa anche i percorsi di alternanza. Non ci convince il progetto del Governo, che pensa al sistema duale tedesco, troppo diverso dal nostro. Chiediamo un modello che miri per prima cosa all'orientamento di studio e lavoro declinato in modo nuovo: la scelta per il percorso alla scuola secondaria non va fatta a 13 anni: ci vuole un biennio unitario per tutti, vanno poi rafforzati i poli tecnici e professionali, dando impulso alla didattica imprenditoriale, con un monte ore progressivo a partire dall'ultimo triennio per tutte le scuole. E c'è bisogno di una governance per evitare le degenerazioni attuali: è il caso degli istituti tecnici superiori, che dovevano essere punti di eccellenza, tra filiera formativa e filiera produttiva, con una visione multiregionale, attivando la mobilità territoriale degli studenti. In realtà, tutto ciò non si è realizzato, e gli Its non rispondono alle esigenze del sistema produttivo. In tutto questo, il ruolo delle parti sociali è fondamentale ed è indispensabile individuare sedi stabili di confronto per programmare e monitorare percorsi di alternanza sul territorio. Il filo rosso è la consapevolezza che la scuola rappresenta il futuro del Paese. Per la prima volta, dopo tanti anni, un cambiamento c'è stato: il Governo è intervenuto con risorse aggiuntive, stabilizzando il personale precario, ma il metodo non ci piace, chiediamo un confronto attento, non le consultazioni on line, coinvolgendo tutte le rappresentanze, a cominciare da quelle dei lavoratori".
Tullio De Mauro, professore linguista ed ex ministro dell'Istruzione, ha sottolineato come "il nostro grande problema si chiama bassi livelli di competenze della popolazione adulta, "che coinvolgono l'80% delle persone, contro poco più del 50 in Francia e Germania e del 64 negli Stati Uniti: siamo al di sotto dei livelli minimi per quanto riguarda la capacità di affrontare un calcolo banale, di capire un grafico, di leggere un articolo di giornale, di scrivere un testo accettabile. C'è un sostanziale analfabetismo funzionale, che ci accomuna alla Spagna, e che va combattuto individuando una strategia nazionale d'istruzione per gli adulti. Eppure la nostra scuola funziona: parametrando l'efficienza del sistema scolastico, siamo poco sotto la media Ue per parametri di conoscenza dei nostri studenti. Ma se non riusciamo a intervenire sui livelli d'istruzione degli adulti, quanto prima ciò si riverberà negativamente sulla stessa scuola. Che ci sia un deficit d'istruzione superiore e universitaria lo sappiamo da 45 anni, ma poco o nulla abbiamo fatto. Dobbiamo uscire da una logica logocentrica e ripetitiva della scuola e procedere verso una didattica laboratoriale. Ciò implica una formazione onerosa, fatta di risorse. E i problemi della scuola vanno visti in stretto intreccio con l'università e la ricerca, che nel frattempo si stanno atrofizzando, perdendo colpi e personale, la cosiddetta fuga dei cervelli italiani: se da un lato, questo ci rallegra, perchè se a 35 anni diventano professori ordinari, mentre da noi a quell'età sarebbero ancora precari, vuol dire che il nostro sistema universitario non è poi così male, ma ciò è drammatico per il Paese".
È stata poi la volta di Alberto Airone, della Rete degli studenti. "Il mondo della scuola superiore – ha ricordato –, da spazio sociale d'apprendimento si è deformato in spazio transitorio e sinonimo di insuccessi per via dei ripetuti tagli alle riosrse. Al contrario, va incentivato il rapporto scuola-lavoro, due mondi che finora si sono parlati pochissimo, senza una progettualità comune. Noi continuiamo la nostra battaglia decennale per uno statuto degli studenti impegnati in stage e tirocinii, che garantisca diritti e tutele e la qualità del lavoro e non, come avviene, deregolamentazione e sfruttamento di ogni tipo. L'innalzamento dell'obbligo a 18 anni è fondamentale per battere la dispersione scolastica, ma non basta. È necessario introdurre un biennio unitario, garantendo una flessibilità che permetta a ognuno di scegliere il proprio percorso, mettendo lo studente al centro del progetto formativo. Il governo deve mettere in piedi un tavolo di confronto costante sul piano che intende attuare, coinvolgendo tutti i soggetti interessati, perchè la consultazione on line non basta".
Daniele Checchi, docente dell'università Statale di Milano, nel suo intervento si è soffermato "sul concetto di filiera formativa, che attualmente è un colabrodo: su 100 studenti della scuola dell'obbligo, ne escono 72 con il diploma di maturità; di questi, poi, 50 si iscrivono all'università e alla fine riescono a conseguire una laurea appena 12, la stessa percentuale di trent'anni fa. Non è davvero un sistema efficiente, perchè perde troppa gente lungo la strada. Abbiamo un modello formativo che fa acqua da tutte le parti. Assieme al basso tasso di scolarità, la filiera formativa italiana ha altri due problemi: i bassi livelli di competenza e il fatto che la sua selettività non è organizzata sulla base di criteri di merito e capacità, bensì di origine sociale. Le responsabilità sono molte, la più evidente è per via di una scuola progettata all'antica, che nasce con la stratificazione della conoscenza voluta da Giovanni Gentile e arriva fino al 2009 con la riforma dell'ex ministro Gelmini, con la diversificazione dei tre canali: licei, istituti tecnici e scuole professionali. Dunque, è una scuola fondata sulla gerarchia dei saperi, che, a sua volta, legittima la gerarchia dei poteri".
"La domanda di scolarità è ancora alta in Italia – ha continuato Checchi –, ma gli obiettivi Ue di Lisbona sono assai lontani. Soprattutto la dispersione scolastica è troppo alta, in particolare nel Sud: ciò si ripercuote negativamente sul mondo del lavoro. Ma come mai si è più ignoranti al Sud? Eppure i programmi sono uguali e di professori bravi ce ne sono anche nel Mezzogiorno. Non sono i soldi che mancano. Forse, il nodo forse attiene all'assegnazione delle cattedre degli insegnanti: i migliori dovrebbero andare laddove è più basso il livello d'istruzione e le scuole sono più problematiche. L'istruzione obbligatoria a 18 anni è ottima, ma non elimina il problema della dispersione. È una questione di attirare i ragazzi a restare nella scuola, usando i fondi appositi come ha fatto la Gran Bretagna. Infine, la formazione professionale: il modello tedesco è selettivo, molta gente resta fuori. Si creano figure professionali sulla base del fabbisogno del mercato del lavoro. Il sistema universitario va differenziato, con una formazione di tipo terziario, convincendo una serie di atenei minori ad andare in tale direzione".
Secondo Jacopo Dionisi, del coordinamento dell'Unione degli universitari, "il nostro sistema d'istruzione non è più uno strumento di mobilità sociale. Il patto sociale si è rotto, a causa siprattutto delle politiche governative attuate dalla riforma Gelmini ad oggi, in materia di diritto allo studio, che hanno favorito un svuotamento di massa di studenti dall'università. Attualmente, vi sono 45.000 studenti che avrebbero diritto a borse di studio, che non le prendono per mancanza di fondi; abbiamo 30.000 immatricolati in meno negli ultimi tre anni e quasi la metà dei corsi di laurea è a numero chiuso. L'idea di università che si è creata non va in direzione di un alto livello d'istruzione nè verso la società della conoscenza: stiamo procedendo nel senso opposto, e i laureati sono sempre di meno: abbiamo il più basso tasso dell'area Ocse e il più alto numero di disoccupati d'Europa. Non si è forse scelto di non investire mai in alta formazione? E non c'entra forse questo con la mancanza di politiche industriali innovative nel nostro Paese? Le cose da fare? Incentivare la formazione a tutti i livelli, inclusa quella post laurea, riformando i tirocinii, certificando meglio le competenze, valorizzando la formazione tecnica di livello universitario, come avviene in Francia. Al contrario, da noi chi sceglie un indirzzo tecnico, non ha poi alcuna capacità di accesso all'università. Dal modo in cui modificheremo il sistema scolastico, potremo poi incidere su un diverso modello produttivo".
Ivanhoe Lo Bello, vicepresidente di Confindustria, invece, ha evidenziato come la scuola affronta il cambiamento epocale degli ultimi anni. "Il sistema delle imprese e il modello produttivo sta cambiando e ciò ha un impatto sul sistema scolastico. Anche il sistema delle competenze è cambiato radicalmente: ciò presuppone che s'innovi profondamente l'innovazione didattica. Senza questo, avremo soggetti con delle competenze che non servono al Paese. È un cambiamento forte e incessante, e la crisi ha messo a nudo un pezzo del sistema che non funziona più. L'alternanza scuola-lavoro, da noi è un'idea arcaica, ed è diventata sinonimo di sfruttamento minorile. Intendiamoci, se scopro un tirocinio o uno stage finto, sono il primo a espellere quell'imprenditore da Confindustria, ma l'abbandono scolastico negli altri paesi si cura proprio con l'alternanza scuola-lavoro. L'abbandono nasce da problematiche che insorgono dalla scuola media. È la filiera educativa di base che deve affrontare l'abbandono, perchè è lì che il fenomeno si genera. I tedeschi hanno un basso tasso di abbandono, perchè le scuole professionali funzionano. Viceversa, i nostri Its non funzionano. La formazione professionale territoriale è spesso un pozzo nero, e, in tal senso, la regionalizzazione non ha funzionato. Il nostro, è un Paese che funziona solo al centro. L'istruzione tecnica non attrae nessuno, perchè quasi sempre è fatta di laboratori anti-diluviani, e i ragazzi vanno solo nelle zone dove c'è domanda di lavoro. Abbiamo poi il più basso tasso di laureati in informatica, malgrado la digitalizzazione didattica sia oggi fondamentale e i giovani siano quasi tutti informatici naturali".
Per Mimmo Pantaleo, segretario generale della Flc, "le ragioni e gli interessi dell'impresa non sono le finalità dell'istruzione: non ci può essere egemonìa culturale sotto tale punto di vista. L'istruzione, quindi le competenze e conoscenze, devono essere veicolo di cambiamento dell'impresa, non il contrario. Se sottomettiamo l'itsruzione all'impresa, andiamo a distruggere la base culturale della scuola, perchè oggi l'impresa, come fa anche il Jobs act, chiede sempre meno competenze e saperi, puntando a una competizione fondata sui bassi salari e bassi diritti. Il rapporto scuola-lavoro non funziona, perchè si sono tagliati di oltre la metà i fondi della formazione, si sono ridotte notevolmente le ore laboratoriali degli isituti tecnici; per questo, abbiamo un sistema di formazione professionale su scala regionale in profonda crisi per mancanza di investimenti. Il rapporto con l'impresa: se le qualifiche del mondo del lavoro vanno verso il basso, le competenze vengono distrutte".
Secondo il dirigente sindacale della Flc, "ci vuole un cambiamento epocale da parte dell'impresa in termini d'innovazione tecnologica, e la capacità dell'istruzione di sostenere un processo del genere. La scuola ha innanzitutto una base culturale, e in tale direzione va l'innalzamento dell'obbligo e la formazione continua. Il rapporto scuola-lavoro implica una sinergia profonda e un cambiamento che coinvolga non solo gli isttuti tecnici, ma anche i licei. Nei prossimi anni anche l'idea di lavoro cambierà: non riguarderà più solo processi industriali, ma sarà sempre più terziarizzato, nel soddisfacimento di lavori culturali e sociali. Per quanto concerne la progettazione, non va tutta trasferita all'impresa, ma deve competere alla scuola. E, sempre la scuola, deve avere una centralità anche per quanto riguarda l'apprendimento permanente. L'idea che privato è bello, mentre pubblico fa schifo, è sbagliata".
Simona Flavia Malpezzi, parlamentare del Pd, ha ricordato le proposte in cantiere in tema di alternanza scuola-lavoro. "Spesso, ci dicono gli studenti, la difficoltà nasce dal fatto che l'impresa non è disponbilie, e non fa esperienze del genere. Abbiamo proposto un target di 200 ore di formazione, diffuse in tutte le scuole, non solo negli istituti tecnici. Le imprese si lamentano di non avere giovani tecnicamente preparati, ma solo in possesso di un'istruzione teorica, ma devono essere più dsponibili a rivedere gli orari interni, perchè gli studenti devono essere messi in condizione di studiare e nel contempo di fare esperienze lavorative. L'its, uscita dalla riforma Gelmini, è estremamente impoverito, con i ragazzi che entrano in laboratorio solo due ore alla settimana: va rivisto e potenziato tale modello. La lotta alla dispersione scolastica si combatte non tanto con l'innalzamento dell'obbligo a 18 anni, ma migliorando l'orientamento scolastico e sperimentando le varie discipline. In cantiere, c'è l'idea di laboratori territoriali, non a scopo di lucro. Inoltre, va restituita dignità alla formazione professionale, togliendo le competenze alle regioni, laddove non hanno funzionato".
Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, ha concluso i lavori. "Il convegno ha dimostrato che non è facile parlare di sistema formatvo, ma è interessante farlo, perchè si toccano tutti i problemi del Paese: c'è un dato di separazione Nord-Sud, c'è una sottovalutazione del ruolo delle donne, c'è la dispersione che coinvolge anche la povertà, c'è un problema che riguarda le famiglie, con un analfabetismo culturalmente arretrato, c'è il nodo della penuria d'investimenti. In sintesi, mettere a punto un sistema d'istruzione, vuol dire immaginare un sistema per il Paese, e pemette di rimettere alcune parole al posto giusto: ad esempio, possiamo essere un paese d'innovazione, se crollano i livelli d'istruzione? Può un Paese ridefinire la sua dimensione del sistema scolastico, se non sa dove sta andando in termini d'investimenti? Se la scelta è di delega alle imprese, allora finisce che anche il tipo di scuola lo deleghi all'impresa. E ciò rischia di favorire gli spiriti meno culturali e più funzionali solo al mondo imprenditoriale. Per intervenire seriamente sul sistema formativo, serve un'idea di Paese. Se non c'è cultura, non c'è neanche innovazione, non è possibile investire se non si ha un orizzonte, se non si sa che cosa fare del Paese. In Italia questa idea sembra mancare, la decisione che si sta prendendo è di delegare tutto al sistema delle imprese, di far decidere loro quale sarà lo sviluppo del Paese, e quindi di delegare alle imprese anche la scuola. In tal modo, si propugna un'idea funzionalista dell'istruzione, che si accompagna alla svalutazione del lavoro, all'idea che il lavoro è solo merce comprabile e vendibile, che è sempre più in atto".
Al contrario, – ha proseguito la leader Cgil –, noi vogliamo che la scuola sia sempre più centro, e che tra le materie d'insegnamento torni l'arte e anche la poesia. Il sistema delle competenze deve essere compiuto e nazionale: parte dall'istruzione e arriva fino alla ricerca, che non è, come pensa qualcuno, un brevettificio. Possiamo mettere sullo stesso piano istruzione e lavoro? Non sono due cose paragonabili, perchè l'una è la precondizione dell'altro. Non possiamo delegare all'esecutività del lavoro la decisione sulla qualità dell'istruzione. E gli ultimi governi sono andati proprio nella direzione opposta. Allungando l'età lavorativa delle persone e accorciando il percorso d'istruzione, si sono resi più deboli i lavoratori. Viceversa, abbiamo il problema opposto, quello di allungare il periodo dell'istruzione, che vuol dire recuperare il gap dell'istruzione di cui soffre il nostro paese in ambito Ue. Nel nostro Nord-Est si è costruito un liberismo tutto incentrato sullo slogan 'guadagna in fretta, perchè la scuola è una perdita di tempo'. Oggi ci rendiamo conto che è vero il contrario: non puoi innovare il modello produttivo senza avere più formazione e istruzione. E di fronte alla perdita del lavoro, servirebbero incentivi per quei lavoratori che finiscono disoccupati, per far sì che almeno ai loro figli sia garantito il percorso scolastico, oltre quello dell'obbligo. Così come è basilare investire di più in cultura: abbiamo costruito percorsi d'istruzione che poco hanno a che fare con la nostra storia, che abbonda invece di circuiti museali, teatri, musica lirica. Non abbiamo bisogno di scimmiottare gli altri. E il nostro analfabetismo è tale che forse non bisogna togliere risorse ai fondi interprofessionali, all'apprendimento permanente. Anzichè cancellare diritti, aggiungiamo risorse per le politiche attive del lavoro, ma la cosa più complessa da fare è mettere a punto una riforma del sistema dell'istruzione nel suo complesso".
"A noi piace innalzare l'obbligo – ha concluso Camusso –, perchè vogliamo vedere l'istruzione come una risorsa per tutti, superando le diseguaglianze di classe, dettate dalla suddivisione tra istituti tecnici, scuole professionali e licei, creando un modello organico, con insegnanti e risorse adeguate. Va ripensato il ciclo, mettendoci dentro un biennio unitario. L'accesso all'università potrebbe essere facilitato proprio dall'innalzamento della scuola obbligatoria. Mentre l'alternanza scuiola-lavoro va collocata a un certo punto, non troppo presto, a 14 anni, come avviene oggi. Ci vuole un cittadino cosciente, non privo di diritti come sta accadendo: basta con stage gratuiti e tirocinii inventati, ci vuole un percorso che certifica le competenze, magari sotto l'egida di un tutor. Ci vuole un'idea di che cosa serva al Paese. Il nostro sistema produttivo non è quello della Ducati, che rimane ottimo, nè quello dell'Enel o di Telecom. Ci vuole un sistema d'istruzione certificato per tutti, che vincoli al rispetto delle regole e contenga strumenti per difendere le singole persone. Innovare il sistema, vuol dire coinvolgere i lavoratori, nella fattispecie gli insegnanti, che vengono da sette anni di blocco contrattuale. Come si fa a cambiare? C'è una regola che vale per l'istruzione, per la ricerca, per la pubblica amministrazione: valorizzare le professionalità. Ignorare i saperi di chi lavora ogni giorno, significa non sapere dove si vuol portare il sistema".