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Più di un dipendente della sanità pubblica su dieci risulta inidoneo a determinate mansioni. Un numero eclatante, ma addirittura sottostimato. Le cause? La movimentazione dei carichi ma soprattutto dei pazienti (più difficilmente gestibili da parte degli operatori, visto che non sono carichi statici ma corpi in movimento), e poi le posture, il lavoro notturno, l’utilizzo dei videoterminali. A indagare questo fenomeno è lo studio “Le inidoneità e le idoneità con limitazioni alla mansione specifica nelle Aziende sanitarie pubbliche italiane: analisi del fenomeno e proposte di policy”, realizzato dal Centro di ricerche sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale (Cergas) dell’Università Bocconi di Milano, che ha preso in esame 137 mila dipendenti di 49 ospedali, Asl e istituti di ricerca in tutta Italia (per un periodo compreso tra il 2005 e il 2014).
“Le limitazioni alla mansione rappresentano un diffuso e rilevante condizionamento all’organizzazione del lavoro, il cui impatto è destinato a essere sempre più significativo alla luce dell’invecchiamento degli organici” si legge nell’introduzione della ricerca. Un tema importante, che incrocia la necessità di tutelare la salute dei lavoratori, l’esigenza di garantire la funzionalità aziendale e il contenimento della spesa pubblica, con ripercussioni anche sulla qualità dell’assistenza e sulla sicurezza dei pazienti. “L’inidoneità finora è stata affrontata con un mix di misure (come pre-pensionamenti, trasferimenti, ricollocazione in uffici) che ora sono meno percorribili”, aggiungono gli esperti del Cergas: è quindi opportuno riflettere su altri percorsi, che evidenziamo in conclusione.
Partiamo dai dati: sono risultati inidonei oltre 16 mila lavoratori, pari all’11,8 per cento degli organici. Le inidoneità totali sono molto ridotte (0,4 per cento), mentre è significativo il numero di inidoneità parziali, in particolare di quelle permanenti, che raggiungono il 7,8 per cento. Se proiettassimo il dato sugli organici complessivi del Servizio sanitario nazionale, avremmo un esercito di 80 mila inidonei. Questo numero, avvertono i ricercatori del Cergas, è addirittura sottostimato sia perché dall’indagine sono esclusi i dipendenti trasferiti o ricollocati prima del 2005, sia a causa di una “perdita di memoria” che la ricerca ha rilevato in numerose Aziende, che non hanno tenuto traccia di inidoneità e limitazioni “risolte” a seguito di ricollocazioni delle persone interessate.
Quali sono le limitazioni più frequenti? La più diffusa è relativa alla movimentazione di carichi e pazienti (49,5 per cento), seguita dalle posture (12,6), dal lavoro notturno e dalle reperibilità (12). Molto elevate risultano quelle della categoria “altro” (11,4 per cento), che comprendono l’esposizione ai videoterminali, il rischio biologico, l’impossibilità di operare in specifici reparti o svolgere particolari azioni. Seguono, infine, le limitazioni legate all’esposizione ad agenti di rischio chimico o ad allergie (5,4 per cento), all’effettuazione di turni non notturni (4,9) e a problemi di stress, burn-out o di natura psichiatrica (4,1).
Le inidoneità sono più usuali tra le donne che tra gli uomini, e tendono ovviamente ad aumentare con il crescere dell’età: sono meno del 4 per cento nella fascia di 25-29 anni, mentre arrivano al 24 nella fascia di 60-64 anni (con un picco del 31,8 per le lavoratrici). Riguardo i ruoli professionali, la categoria più colpita è quella del personale sanitario o tecnico con mansioni strettamente operative e/o di tipo socio-assistenziale (come gli operatori socio-sanitari o gli ausiliari specializzati): il 24,1 per cento di questi presenta infatti una o più limitazioni. Considerevole è anche la quota di infermiere e ostetriche (15,1) e di assistenti e operatori tecnici (13,4), mentre solo il 4,8 per cento dei dirigenti risulta inidoneo.
L’ultimo dato fornito dalla ricerca è quello delle ricollocazioni. La maggioranza dei dipendenti è rimasta all’interno dello stesso reparto (con soluzioni come la dotazione di ausili, la compresenza di un secondo operatore a supporto, la modifica del piano di attività individuale) oppure è rimasta sempre nello stesso ambito ma in contesti lavorativi con rischi inferiori (ad esempio, in reparti di degenza che non richiedono la movimentazione dei pazienti o i turni notturni). Una quota di dipendenti si è invece spostata da un ambito all’altro: la riduzione maggiore ha riguardato gli operatori del 118 (il 60 per cento dei dipendenti con limitazioni è stato trasferito), seguiti da quelli dell’area ospedaliera di degenza, mentre aumentano le persone impiegate nei servizi o nelle attività territoriali.
Fin qui i numeri. Ma la ricerca è andata avanti: gli esperti del Cergas, infatti, hanno analizzato in particolare nove Aziende sanitarie di cinque Regioni. E qui le difficoltà emergono con maggiore evidenza: la forte eterogeneità nelle dotazioni di personale dedicato alla sorveglianza sanitaria (ossia i medici competenti), la mancanza di specialisti di supporto, la quasi inesistente presenza nel processo di sorveglianza sanitaria dell’ufficio gestione risorse umane, i problemi relativi alla capacità del medico competente di eseguire con puntualità i sopralluoghi, il mancato aggiornamento dei Documenti di valutazione dei rischi, la marginalità del Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (Rls).
Allora, come intervenire? Alcune misure indicate dal Cergas sono di carattere organizzativo più generale: l’introduzione di un sistema standard di rilevazione delle limitazioni, l’informatizzazione di tutto quanto riguardi la sorveglianza sanitaria (in troppi luoghi di lavoro è ancora svolta su carta), la creazione di reti sovra-aziendali per medici competenti e altre figure della prevenzione, allo scopo di superare “un certo isolamento professionale”. Ma molto possono fare anche le singole Aziende, in primis dotandosi di specialisti di supporto per le patologie più diffuse (come i fisiatri), favorendo la partecipazione del medico competente nella gestione delle limitazioni (da cui è solitamente escluso), sviluppando servizi di supporto psicologico per lo stress (che risulta in costante aumento), definendo politiche per il personale fondate sulla gestione attiva dell’invecchiamento, valorizzando il ruolo degli Rls a partire dalla partecipazione ai sopralluoghi.