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Il testo che segue è la sintesi dell’articolo pubblicato nella sezione Tema del n. 2/2018 della Rivista delle Politiche Sociali. Questo è invece il link alla rubrica che Rassegna dedica alla pubblicazione
L’anno 1978, così denso di date significative per la salute a livello nazionale (legge 833/78, legge 180/78, legge 194/78) e internazionale (Dichiarazione di Alma Ata, settembre 1978), rappresenta una sorta di spartiacque della storia (anche nel campo della sanità), con un “prima” e un “dopo”. Il “prima” è il periodo successivo alla fine della seconda guerra mondiale, in cui si registra l’espansione del welfare universalistico – tratto comune dei governi liberaldemocratici e socialdemocratici europei – e si afferma il principio secondo cui alcuni servizi fondamentali, come l’istruzione e la sanità, debbano essere sottratti ai meccanismi di mercato e quindi essere garantiti dallo Stato, per offrire pari opportunità a tutti e per ridurre il rischio della dilatazione delle disuguaglianze all’interno della società (provocate per l’appunto dal mercato).
Il “dopo” prende le mosse agli inizi degli anni ottanta, con l’elezione di alcuni leader ultraconservatori – Margaret Thatcher in Gran Bretagna (1979) e Ronald Reagan negli Stati Uniti (1980) – e con l’affermarsi del neoliberismo. Le politiche neoliberiste si applicano anche alla sanità, che diventa terreno di conquista del mercato a livello globale, come si legge in un articolo di The Lancet del 2001: “Negli ultimi due decenni la spinta verso riforme dei sistemi sanitari basate sul mercato si è diffusa in tutto il mondo, da Nord verso Sud, dall’Occidente all’Oriente. Il modello globale di sistema sanitario è stato sostenuto dalla Banca Mondiale per promuovere la privatizzazione dei servizi e aumentare il finanziamento privato attraverso il pagamento diretto delle prestazioni (user fees). Questi tentativi di minare alla base i servizi pubblici, da una parte, rappresentano una chiara minaccia all’equità nei Paesi con solidi sistemi di welfare in Europa e in Canada, dall’altra costituiscono un pericolo imminente per i fragili sistemi dei Paesi con medio e basso reddito”.
Rudolf Klein ha paragonato le trasformazioni dei sistemi sanitari, avvenute dagli anni ottanta in poi in ogni parte del mondo, a una sorta di epidemia planetaria. Una potente motivazione alla ristrutturazione dei sistemi sanitari va ricercata nella necessità di far fronte ai costi derivanti dai crescenti consumi alimentati dall’estensione del diritto di accesso ai servizi, dall’invecchiamento della popolazione e dall’introduzione di nuove biotecnologie. Nel periodo intercorso tra il 1960 e il 1990 nei 29 Paesi più industrializzati appartenenti all’Ocse la spesa sanitaria mediana pro capite era passata da 66 a 1.286 dollari, mentre la mediana della percentuale della spesa sanitaria sul Pil passava nello stesso periodo dal 3,8 al 7,2%.
L’esigenza di contenere i costi, eliminando le spese inappropriate o inutili e dando più efficienza al sistema, si accompagnò a un altro tipo di spinta, di ordine politico-ideologico: la tendenza alla privatizzazione e all’introduzione del libero mercato, secondo le linee di politica neoliberista. La coincidenza cronologica dei due tipi di pressione (“più efficienza” e “più mercato”) ebbe l’effetto di dare più forza e giustificazione al secondo, attraverso il seguente ragionamento: solo applicando le regole del mercato, iniettando cioè potenti dosi di competizione e di privatizzazione, il sistema può diventare efficiente.
Nel 2011 la rivista inglese BMJ pubblicò un articolo, firmato da due tra i più noti ed esperti analisti di politica internazionale, Martin McKee e David Stuckler, dal titolo “The assault on universalism”. Secondo gli autori, la riforma del National health service (Nhs), allora in gestazione, voluta dal governo conservatore, mirava a smontare dalle fondamenta il glorioso Servizio sanitario nazionale, nato nel 1948: si trattava di un vero assalto all’universalismo. La loro tesi era che si utilizzava la crisi economico-finanziaria per distruggere i sistemi di welfare universalistici, quali il Nhs e altri servizi sanitari nazionali: “La crisi economica ha offerto al governo l’opportunità che capita una sola volta nella vita. Come Naomi Klein ha descritto in molte differenti situazioni, quelli che si oppongono al welfare state non sprecano mai una buona crisi”.
Nel Regno Unito la temuta riforma del Nhs è entrata in vigore nel 2013, producendo la totale privatizzazione dei servizi sanitari. Analogo destino è toccato alla Spagna: anche qui un governo conservatore non ha perso l’occasione fornita dalla crisi per sbarazzarsi – con un semplice decreto reale (aprile 2012) – del sistema sanitario universalistico, per consegnare tutto nelle mani delle assicurazioni. Anche in Italia è in atto l’assalto all’universalismo. Ma a differenza di quello che è avvenuto in Gran Bretagna e in Spagna, nel nostro Paese l’assalto non ha trovato un percorso politico e legislativo trasparente.
In Italia l’assalto all’universalismo – e ai princìpi fondanti della legge 833 approvata 40 anni orsono – si manifesta con un disegno bipartisan fondato sul definanziamento del settore sanitario pubblico e sulla promozione del “secondo pilastro” assicurativo privato. Un disegno molto simile a quello ordito nel 1992 dal ministro De Lorenzo, ma reso oggi molto più pericoloso dalla convergenza di molteplici interessi e dall’assenza di qualsiasi resistenza a “sinistra”. C’è da augurarsi che le molteplici iniziative che sono in cantiere per ricordare i 40 anni di vita del Servizio sanitario nazionale servano a risvegliare dal loro sonno le forze politiche e sindacali che hanno (o dovrebbero avere) nel loro bagaglio ideale il concetto di diritto alla salute e di uguaglianza di tutte le persone di fronte alla malattia.
Gavino Maciocco è docente di Sanità pubblica presso l’Università di Firenze