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Il testo che segue è la sintesi dell’articolo pubblicato nella sezione Tema del n.2-2017 della Rivista delle Politiche Sociali. Gli abbonati possono leggerlo qui in versione integrale. Questo è invece il link alla rubrica che Rassegna dedica alla stessa Rivista
Nell’arena pubblica, le agevolazioni fiscali al welfare aziendale sono spesso considerate una win win solution: alcuni ne beneficiano e nessuno è danneggiato. Opporvisi sarebbe espressione d’invidia o di un piatto ugualitarismo da parte di una sinistra passatista, cieca al ruolo del privato e delle differenze. Ma non è sempre così. Sul versante della sanità complementare, le agevolazioni al welfare aziendale possono invece comportare due insiemi di costi non indifferenti.
Primo, possono creare una “doppia” disuguaglianza nei diritti, permettendo ad alcuni non solo di accedere a più tutele rispetto a quelle disponibili ad altri – nel caso della sanità complementare più prestazioni sanitarie –, ma anche di scaricarne parte del costo su chi non può accedervi. Come esplicitamente rilevato dal termine inglese di tax expenditure, le agevolazioni sono, infatti, una spesa fiscale, comportando una riduzione del gettito.
La forma della deduzione (utilizzata in Italia) permette inoltre di avvantaggiare maggiormente i lavoratori più ricchi, il valore della deduzione aumentando all’aumentare dell’aliquota marginale. Aggiungo come la sanità complementare inietti, in un campo che ne era stato sostanzialmente immune, i germi di una malattia che da sempre affligge il nostro sistema di welfare: il particolarismo categoriale.
Secondo, possono peggiorare lo stato del servizio pubblico. Diverse sono le vie. Vi è la via finanziaria. In particolare in periodi di vincoli stringenti di finanza pubblica, dirottare risorse alla sanità complementare può implicare meno risorse per il Ssn. Vi è la via dell’indebolimento della voce a difesa della qualità delle prestazioni pubbliche. Chi beneficia della sanità complementare ha un’agevole opzione qualora insoddisfatto delle prestazioni pubbliche: l’uscita. In tal caso, le prestazioni offerte dal privato dovrebbero, ovviamente, essere sostitutive e, sulla carta, le prestazioni sanitarie oggi agevolate in Italia dovrebbero essere integrative. Nella realtà, però, molte prestazioni offerte sono sostitutive.
Ancora, lo sviluppo della sanità privata potrebbe comportare una progressiva riduzione/marginalizzazione del Ssn. Si ipotizzi, solo per fare un esempio, che nel futuro sia più facile reperire risorse per finanziare l’universalizzazione di alcune prestazioni essenziali oggi non garantite di odontoiatria o di contrasto alla non auto-sufficienza. Ebbene, la presenza della sanità complementare – e, in questo caso, l’obiezione si applica esattamente alle forme integrative – potrebbe ostacolare il processo, come già paventato da Titmuss e come suffragato da diversa evidenza empirica.
Non vi è, dunque, invidia nelle obiezioni al welfare aziendale in materia sanitaria. Semplicemente, le prestazioni di welfare, qualora riguardino dei bisogni ritenuti importanti per tutti, vanno a tutti assicurate. Se si ritiene che non riguardino bisogni oppure che le risorse pubbliche siano insufficienti per garantire a tutti l’accesso, le prestazioni aggiuntive vanno lasciate alle scelte individuali senza sussidi da parte della collettività. Neppure, mi sembra, le obiezioni possano caratterizzarsi come passatiste. Al contrario, null’altro riflettono se non la nozione di diritto al cuore della prospettiva equitativa della cittadinanza.
Anche si condividessero le obiezioni appena espresse, le agevolazioni al welfare aziendale non potrebbero, tuttavia, produrre benefici indiretti a favore di tutta la collettività? Ciò sarebbe particolarmente vero nel caso delle ultime disposizioni introdotte nel nostro Paese che legano le agevolazioni al verificarsi di guadagni di produttività. È impossibile in poche righe affrontare adeguatamente la questione. Solo a mo’ di notazione, oltre a ricordare le difficoltà di definire gli incrementi di produttività imputabili all’impresa (così evitando comportamenti opportunistici), aumentare la produttività non è il mestiere dell’imprenditore? Certo, la produttività dipende anche dalle condizioni esterne all’impresa e su questo fronte la politica ha molto a che fare. Le agevolazioni concernono, però, la distribuzione di incrementi di produttività già verificatisi.
Dobbiamo allora compensare le imprese perché sono state brave? Ma i profitti non sono la ricompensa della bravura? E se ci sono profitti, l’impresa non ha margini per migliorare le condizioni dei dipendenti? L’unica ragione a favore delle agevolazioni mi sembra possa risiedere nel legame fra realizzazione di maggiore produttività e attesa di diminuzione delle retribuzioni, grazie alle agevolazioni. Se il problema è il costo del lavoro, esiste, però, una soluzione esplicita e meno problematica: la diminuzione, per tutti, dell’imposizione sui (bassi) redditi da lavoro.
Il che non implica l’assoluta indesiderabilità del welfare aziendale. Senza agevolazioni fiscali, il welfare aziendale sarebbe sempre perfettamente lecito. Continuerebbe, sì, a creare disuguaglianze, ma vietarlo violerebbe un’importante libertà: quella dei datori di lavoro di promuovere il benessere dei propri dipendenti. Ugualmente accettabili mi paiono agevolazioni fiscali ai datori di lavoro per attività che concorrono a interessi collettivi, ma non rientrano nei compiti tipici delle imprese e per le quali i datori di lavoro non sono in grado di appropriare il complesso dei benefici.
L’esempio tipico è costituito dalle attività di formazione, i lavoratori formati potendo lasciare l’azienda per altre aziende. Un altro esempio è costituito dagli asili nido aziendali aperti alla collettività, la cui realizzazione, lungi dall’introdurre nuovi diritti per alcuni a carico della collettività o pregiudicare il servizio pubblico, favorisce l’effettività del diritto all’accesso agli asili nido. Il punto è che gli ambiti, oltre alle forme, del welfare aziendale sono dirimenti. In ambito sanitario, i costi equitativi non sono indifferenti.
Elena Granaglia è professore ordinario di Scienza delle finanze all’Università Roma Tre