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Sachsenhausen - È una giornata gelida e dalle nuvole sopra il cielo di Brandeburgo scende un misto di pioggia e neve che, appena giunge al suolo, si trasforma in poltiglia e fango.
“Proprio lì dove siede lei ora”, spiega Günter Morsch, esperto di storia del nazismo e direttore del Museo della memoria di Sachsenhausen, “si trovava la scrivania di Anton Kaindl, l’ultimo famigerato Comandante delle SS assegnato a questo lager. Qui venivano prese le decisioni su tutto ciò che riguardava il campo.”
Costruito nel 1936, Sachsenhausen è stato il primo vero e proprio campo di prigionia nazista: “Dal 1936 al 1945 sono state imprigionate circa 200 mila persone, di cui il 20% d’origine ebraica”, spiega Morsch. “Alla fine della guerra, quando i nazisti scapparono, restavano solo tremila prigionieri stremati dalla fame e dalle malattie”.
“Sachsenhausen era qualche cosa più di un lager”, continua il direttore, “in quanto doveva rappresentare, secondo gli intenti nazisti, un campo modello dove progettare nuove forme di sfruttamento del lavoro carcerario”.
Accanto ai dormitori a est dell’entrata si trova l’area in cui i prigionieri venivano portati a marciare per ore e ore al fine di testare la resistenza degli stivali destinati alla Wehrmacht, le truppe militari naziste; nelle baracche a ovest, invece, erano localizzate le officine metallurgiche, le sartorie e le falegnamerie.
Poco distante, il braccio della morte: qui i ribelli, i malati e coloro che non erano abili al lavoro venivano “terminati” tramite fucilazione o impiccagione. Nel 1943, per disposizione dello stesso Kaindl, fu aggiunta una camera a gas. Tutt’intorno pannelli commemorativi raccontano la storia di alcune delle vittime.
Prof. Morsch, perché è importante ricordare?
“Prima di tutto, per rendere alle vittime il tributo che non hanno avuto in vita. Poi, perché questo luogo rappresenta una controprova per il futuro. Sachsenhausen è la testimonianza della potenziale brutalità e violenza di cui sono capaci gli uomini. Infine, perché le motivazioni che hanno portato alla deviazione nazista, ovvero l’idea che la vita sia ingiusta, che non ci siano sufficienti opportunità di lavoro per tutti e l’invidia verso gli altri, sono presenti ancora oggi e l’unico modo che abbiamo per evitare che degenerino è il ricordo e la conoscenza di cosa significava vivere sotto una dittatura, essere prigionieri in un lager. Se ancora oggi vengono pubblicati libri come quello di Thilo Sarrazin, dove sono esposte tesi con velleità scientifiche sulla differenza tra gli esseri umani, tra le classi sociali, sulle distinzioni etniche, concetti che sono stati parte integrante della società tedesca e che hanno condotto al folle genocidio perpetrato dai nazisti, allora il valore della memoria è ancora più forte e necessario.”
Anche i nazisti sostenevano l’importanza dell’analisi scientifica per lo studio dei fenomeni sociali. A questo scopo, a Sachsenhausen si utilizzava materiale umano, come fece l’italiano Guido Landra che proprio in questo lager si recò nel 1939 per studiare i tratti razziali dei detenuti. Le baracche R1 e R2 erano destinate invece agli esperimenti scientifici veri e propri: qui l’omosessualità veniva “curata” tramite castrazione, mentre Karl Brandt, medico ufficiale di Hitler, in queste baracche conduceva esperimenti d’inoculazione di virus di epatite epidemica su cavie umane.
Sachsenhausen è particolarmente famosa per essere stata la base operativa dell’Operazione Bernhard, la più grande contraffazione di valuta della storia, finalizzata a mettere in crisi l'economia britannica attraverso l'immissione massiccia di banconote false. La stampa dei biglietti ebbe luogo presso le baracche 18 e 19 e furono impiegati 137 deportati ebrei esperti nel settore. Da questa storia è stato tratto un film, “Il falsario”, vincitore dell’Oscar 2007 come miglior film straniero.
“Un film”, spiega Morsch, “è sempre una mediazione tra realtà e finzione. Oggi, però, assistiamo a un processo di spettacolarizzazione volta a conferire rilevanza soprattutto a immagini forti, a prescindere dalla loro autenticità. Il problema è che quando le persone giungono in questi luoghi di commemorazione, possiedono un’idea distorta della realtà. Assume perciò particolare rilevanza la testimonianza dei sopravvissuti, perché è solo tramite essi che possiamo risalire alla verità storica e alla giusta ricostruzione della vita nei lager”.
A Sachsenhausen, per esempio, gli eroi non erano solo contraffattori e tipografi esperti, quali i protagonisti de “Il falsario”, nemmeno campioni d’automobilismo, come l’inglese William Grover-Williams, anch’egli prigioniero in questo lager. Piuttosto gente comune, la cui storia, senza l’opera di ricerca del Museo, sarebbe andata persa per sempre. Tra questi, Robert Ziedolf, un testimone di Geova la cui urna è stata ritrovata nel 2007 nei lavori di restauro delle cucine. Il 17 luglio 1940 Robert fu ucciso perché si era rifiutato, insieme al compagno Franz Welz, di salutare il gerarca Heinrich Himmler in visita al lager. Un piccolo gesto di protesta e, bum, un proiettile alla base del cranio. Fine.
Dopo la guerra, Sachsenhausen divenne un campo d’internamento sovietico destinato ad accogliere 60 mila prigionieri nazisti: “Le condizioni dei detenuti non erano certo migliori”, spiega Morsch, “però i sovietici non attuarono alcun piano di sterminio. Migliaia di prigionieri perirono per fame e per malattia, come d’altronde nello stesso periodo quasi 100 mila persone morirono per le medesime ragioni in tutta la Germania”.
Questo pomeriggio, lungo il perimetro che circonda le baracche, le scolaresche si trascinano malvolentieri nel pantano. Urlano, fanno chiasso, scherzano. Poi, però, la guida esperta le conduce di fronte a dei piccoli camini, ricoperti di una polvere biancastra, che sembra essersi depositata lì da molto tempo: sono i forni crematori, dove i cadaveri dei prigionieri venivano bruciati. Qui, come per incanto, tutto tace, anche il rumore della pioggia che ha preso a scendere forte.
All’esterno del padiglione, una scritta: “E io so una cosa in più, che l’Europa del futuro non potrà esistere senza commemorare tutti quelli che, indipendentemente dalla nazionalità, sono stati uccisi in quel periodo con completo disprezzo e odio, tutti coloro che sono stati torturati a morte, fatti morire di fame, gasati, inceneriti e impiccati”. L’autore è Andrzej Szczypiorski, prigioniero nel campo di concentramento di Sachsenhausen.