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Nell’assumere un formale impegno circa l’opportunità di procedere, in tempi brevi, a un analitico commento della legge 28 giugno 2012, numero 92, colgo l’occasione per alcune considerazioni di massima.
Nel Paese in cui tanto il suo estensore quanto i più accaniti critici fanno riferimento al vigente sistema elettorale in termini di legge “porcata”, non meraviglia - né, purtroppo, desta scalpore - che il presidente della più importante associazione di categoria degli industriali si esprima, rispetto alla recente riforma del mercato del lavoro, definendola “una boiata”.
In sostanza, per Confindustria, la “maestrina” che presiede il dicastero di Via Veneto si sarebbe limitata - dopo cotanto sforzo - a produrre “un po’ di flessibilità in uscita, molto meno flessibilità in entrata. Contributi più cari per i datori di lavoro, tutele ridotte per i lavoratori”.
Confesso che la mia prima reazione alle parole di Giorgio Squinzi è stata pari a quella prodotta da un “dèjà vù”. Non mi sbagliavo.
In effetti - di là dalla forma e, soprattutto, dallo stile dei personaggi - la sensazione è di essere tornati indietro di almeno una ventina di anni. Per l’esattezza, a quel famoso luglio del 1991, quando fu pubblicata la legge 223.
Come noto, anche allora - chi ha buona memoria e rifugge dalle “amnesie di parte”, lo ricorderà - il presidente di Confindustria, tal Sergio Pininfarina, sparò “ad alzo zero” contro la legge che riformava la Cassa integrazione e introduceva la c.d. “mobilità” per i licenziamenti di tipo collettivo.
All’epoca, in linea con lo stile del responsabile di Viale Dell’Astronomia, si trattò di una serie di “distinguo”, di alcune “puntualizzazioni” e di specifiche “critiche di merito”, che non impedirono, però - negli anni successivi - a nessun datore di lavoro, di scaricare (sin troppo frequentemente) sulla collettività i costi - cassa integrazione e mobilità - di scelte aziendali (spesso) miopi e azzardate.
Trascorrono gli anni, i presidenti di Confindustria si alternano (e lo stile ne risente), al dicastero che fu di Brodolini, Marini e Gino Giugni si ritrova la Fornero, ma il copione è sempre lo stesso.
In effetti, a ben vedere, l’accoglienza ricevuta dalla riforma in oggetto presenta anche alcuni aspetti paradossali.
I “Professori” Monti e Fornero sembrano davvero credere a quell’enorme sciocchezza secondo la quale abolire i diritti e le tutele previste dall’art. 18 dello Statuto servirà a incrementare l’occupazione.
Michele Tiraboschi, direttore del centro studi “Marco Biagi” e grande sostenitore di quel vero e proprio “Supermarket delle tipologie contrattuali” rappresentato dal decreto legislativo 276/03 - figlio legittimo della c.d. “legge Biagi” - esprime, intanto, un giudizio fortemente critico sul provvedimento. Evidentemente dimentica che il sostanziale superamento dell’art. 18, legge 300/70, rappresentava già (nel 2001) uno dei punti cardine del famigerato “Libro Bianco” di Maroni e Biagi.
Pietro Ichino, vera e propria “quinta colonna” del liberalismo all’interno del Pd - che dovrebbe, in linea teorica, rappresentare il c. d. Centrosinistra nel nostro Paese - e convinto sostenitore del 276/03, ondeggia, nel giudizio definitivo sulla riforma, tra i pregi(!):
1) passaggio, in materia di licenziamenti, dalla regola generale del reintegro alla sanzione amministrativa;
2) drastica riduzione dell’indennizzo al lavoratore nel caso di reintegrazione.
E i difetti:
1) “appesantimento”, a danno dei datori di lavoro, delle pratiche burocratiche in generale e, più in particolare, rispetto agli strumenti di contrasto alle “dimissioni in bianco”;
2) mancata “traducibilità” in inglese della legge.
Tra l’altro, in qualità di vero e proprio ideologo delle “ragioni delle aziende”, Ichino afferma che, seppure incompleta - a casa della mancata (strutturale) “semplificazione” della nostra legislazione del lavoro (del tipo, evidentemente: ”Io datore di lavoro, tu lavori”!) - “Gli aspetti positivi di questa riforma saranno - nel tempo - confermati dall’aumento degli investimenti stranieri nel nostro Paese”.
A questo riguardo, la sensazione è che egli menta “sapendo di mentire”!
Non si spiegherebbe altrimenti la (sua) tesi secondo la quale la sostanziale abolizione della tutela reale nei licenziamenti individuali e la completa liberalizzazione dei licenziamenti di tipo economico - peraltro, già ampiamente consentiti dalla legislazione pre/riforma - rappresenterebbero i due elementi determinanti ai fini dell’incremento dell’occupazione (soprattutto giovanile) e degli investimenti esteri; in sostanza: una “condicio sine qua non”.
Ichino, infatti, non può non sapere che il rapporto che intercorre tra i licenziamenti “facili” e gli elementi decisivi per attrarre gli investimenti esteri in Italia, è lo stesso che intercorre tra ……. i cavoli e la merenda.
In questo senso, risalgono allo scorso mese di giugno i risultati di un’indagine, commissionata al Politecnico di Torino, relativa all’individuazione di un paese europeo nel quale (convenientemente) allocare un nuovo stabilimento per la produzione di macchinari per il silicio.
Lo studio rileva che: tra tassazione, rapidità e velocità di esecuzione e rapporto con le autorità locali, se avviata fuori dai confini italici, l’iniziativa produrrebbe, nei cinque anni del suo business plan, il 20% di margine netto.
“Tutta colpa dell’art. 18”, secondo Ichino.
La realtà, però, è ben diversa. Si allunga la lista degli imprenditori che vanno all’estero - e di quelli che non vengono in Italia - in cerca non di minori oneri del lavoro, tra i quali quelli del licenziamento “vecchio stile”, ma di maggiore efficienza della burocrazia e migliori infrastrutture.
Lo studio in oggetto evidenzia che, per esempio, rispetto alle “Infrastrutture per trasporto merci e servizi” - fonte: World Competitiveness Yearbook, 2011 - se la valutazione 10 rappresenta il massimo dell’efficienza, il nostro Paese presenta un valore pari a 5,87. Ben lontano dai principali partner europei e, addirittura, inferiore a Polonia (7,36) e Ungheria (7,15).
Rispetto, alla “Tutela legislativa dei brevetti”, i risultati sono altrettanto sconvolgenti (ed eloquenti).
Fatto 10 il valore assegnato al massimo della tutela, in Italia esso è pari a 5,85. Subito dopo la Repubblica Ceca (6,11) e superiore solo a quello della Polonia (5,78).
Non si presenta migliore il dato relativo alle “Imposte massime sugli utili 2011”. Nel nostro Paese il valore si attesta intorno al 31,40 %; inferiore solo a quello di Stati Uniti e Francia (fonte: PricewaterhouseCoopers).
E, intanto, i “professori” di casa nostra - contro ogni logica e di là da ogni umana sopportazione - continuano a sostenere che: “Più sarà facile licenziare e maggiore sarà l’incremento dell’occupazione”.
Articolo già pubblicato, in data 9 luglio, dal sito web “Micromega”