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Senza ripresa dell’occupazione sarà difficile ridurre la povertà. Investire nella crescita dell’occupazione è perciò fondamentale. Non è tuttavia sufficiente. Bassi salari e precarietà del lavoro, bassa intensità occupazionale a livello famigliare e polarizzazione tra famiglie ricche e povere di lavoro, riduzione della domanda di lavoro nei settori tradizionali a favore di quelli tecnologicamente più avanzati, incapacità del sistema scolastico di compensare le disuguaglianze di partenza, rischiano di lasciare fuori molti individui e famiglie anche da una futura auspicabile ripresa.
Se l’obiettivo è anche prevenire o contrastare la povertà, occorrono politiche dell’occupazione, e prima ancora della formazione, mirate alla popolazione con maggiore difficoltà nel mercato del lavoro, sostenute da servizi per l’impiego preparati adeguatamente, insieme a politiche che favoriscano la conciliazione tra lavoro remunerato e responsabilità famigliari. Accanto a politiche del lavoro e della formazione mirate ai soggetti più svantaggiati, occorrono, tuttavia, anche forme di integrazione economica per chi ha un reddito insufficiente.
In primo luogo, al fine di evitare che si creino eccessivi squilibri tra reddito famigliare e numerosità della famiglia, occorrono trasferimenti monetari a parziale sostegno del costo dei figli, vuoi universali, vuoi, in situazione di carenza di risorse, mirate alle famiglie a basso reddito, senza distinzioni categoriali. A questo fine, è necessario mettere mano all’insieme delle misure esistenti – assegno al nucleo famigliare, detrazioni per i figli a carico, assegno per il terzo figlio, il neonato bonus bebé – per disegnare una forma di trasferimento che sia inclusiva e soprattutto non rischi di escludere proprio i più poveri, vuoi perché non sono lavoratori dipendenti, vuoi perché sono incapienti, vuoi perché non hanno figli tutti minori, o non mettono al mondo un figlio nei prossimi tre anni.
Una misura di questo genere farebbe uscire dalla povertà un buon numero di famiglie di lavoratori, che sono tali spesso perché con un reddito modesto devono far fronte ai bisogni di una famiglia numerosa. È utile a questo proposito tenere a mente che nel 2013 in Italia circa un milione e 39 mila persone in povertà assoluta vivevano in famiglie in cui la persona di riferimento era disoccupata (quindi erano probabilmente famiglie in cui non vi era nessun occupato), ma un milione e 996 mila poveri assoluti vivevano in famiglie in cui la persona di riferimento svolgeva una professione operaia.
Le cifre erano più basse, ma non inesistenti, anche in caso di persona di riferimento impiegata o in altra condizione professionale. L’Italia, in effetti, è uno dei paesi europei in cui il fenomeno dei lavoratori poveri su base famigliare è più diffuso, per l’elevata incidenza delle famiglie monoreddito e per la scarsa efficacia dei trasferimenti legati alla presenza dei figli. Sarebbe anche utile, oltre che equo, introdurre una forma di imposta negativa, almeno per compensare gli incapienti delle detrazioni cui avrebbero teoricamente diritto ma di cui, a causa dell’incapienza, non riescono a fruire.
Chi, come il presidente del Consiglio, parla avventatamente di incostituzionalità di una eventuale misura di reddito minimo per i poveri, dovrebbe chiedersi piuttosto se non sia incostituzionale non aver previsto forme di compensazione nel caso dell’incapienza e se gli stessi 80 euro di detrazione fiscale riconosciuti dal suo governo ai lavoratori dipendenti a basso reddito, purché capienti, oltre a costituire una palese ingiustizia entro la stessa categoria dei lavoratori dipendenti, non si configurino come una misura anticostituzionale, perché non accessibile a tutti i cittadini che hanno gli stessi requisiti di reddito.
Anche una politica abitativa che sostenesse l’accesso alla casa ai ceti più modesti avrebbe un forte impatto contro la povertà. Oggi vediamo che, a parità di reddito e di composizione famiglia, avere o non avere accesso a un’abitazione di edilizia popolare fa una differenza enorme sul reddito effettivamente disponibile. Queste misure ridurrebbero, ma non eliminerebbero la platea di coloro che avrebbero bisogno, per un periodo più o meno lungo, di una garanzia di reddito minimo analoga a quella presente da tempo nella stragrande maggioranza dei paesi europei e anche in altri paesi extra-europei.
Ci sono in Italia oltre 6 milioni di poveri assoluti. Un milione e 438 mila sono minori (13% di tutti i minori), 888 mila anziani. Come ho segnalato sopra, circa un milione e 39 mila vivono in famiglie in cui nessun adulto è occupato o gli adulti presenti non lavorano per più del 20% del loro potenziale teorico. Il reddito minimo è necessario per consentire a questi individui e famiglie l’accesso ai consumi di base mentre si danno da fare a cercare un lavoro o ad acquisire le competenze richieste.
È necessario per consentire ai minori una crescita adeguata e il proseguimento della formazione, invece di essere tolti precocemente dalla scuola per cercare lavoretti nell’economia informale, quando non criminale. È necessario perché non tutti e non sempre sono in grado di lavorare, anche quando la domanda di lavoro fosse abbondante e riguardasse anche le basse qualifiche. Età matura, carichi famigliari pesanti, problemi di salute possono impedire di presentarsi sul mercato del lavoro o rendersi poco appetibili ai potenziali datori di lavoro. Un reddito minimo, quindi, è necessario sia come ponte verso un’occupazione che dia reddito sufficiente, sia come rete di protezione stabile per chi non ce la fa.
Come avviene nella maggior parte dei paesi europei che hanno da tempo uno strumento di questo tipo, una misura di reddito minimo dovrebbe essere universale, non perché rivolta a tutti i cittadini a prescindere dal reddito, ma a tutti i cittadini che si trovano al di sotto della soglia di reddito equivalente (cioè commisurato sia alle risorse sia all’ampiezza della famiglia di residenza) considerata indispensabile. Si può prendere come riferimento la soglia della povertà assoluta, perché meno sensibile di quella relativa agli andamenti congiunturali, tenendo conto (come non sembra fare la pur apprezzabile proposta del Movimento 5 Stelle) della variabilità del costo della vita tra città grandi e piccole, centro e periferia, Nord e Sud.
Oppure si possono prendere come riferimento altri redditi minimi esistenti nel nostro sistema di protezione sociale, quali la pensione sociale o la pensione integrata al minimo, tenendo, comunque, conto anche della ricchezza, quindi utilizzando il nuovo Isee, anche per avere uno strumento omogeneo di valutazione delle risorse economiche per tutte le prestazioni, facendo variare soltanto le soglie a seconda del tipo di prestazione. Il riferimento è alla famiglia anagrafica, sia per il test dei mezzi che per il calcolo dell’importo dell’integrazione reddituale.
Il sostegno al reddito si configura come integrazione del reddito disponibile fino alla soglia definita – non, quindi, una somma uguale per tutti a prescindere dalla distanza dalla soglia, come nella proposta di Sel. Per incentivare l’iniziativa individuale e non scoraggiare dalla ricerca di lavoro, anche a tempo (e reddito) parziale, si può eventualmente prevedere che l’integrazione non cessi del tutto una volta superata la soglia, ma venga ridotta progressivamente. I criteri di assegnazione devono essere trasparenti e non discrezionali.
L’accesso deve essere continuo, e non a bando (come è avvenuto per la sperimentazione della nuova carta acquisti), dato che la caduta in povertà può avvenire in qualsiasi giorno dell’anno. I tempi di verifica devono essere ragionevolmente brevi, per evitare indebitamenti o ricorso all’economia sommersa in attesa di ricevere sostegno. E l’erogazione non deve essere a termine (come prevedono sia la proposta di M5S sia quella del Pd di Leva e altri), ma fino a che il bisogno persiste, salvo verifiche periodiche (ogni tre o sei mesi) della permanenza dello stesso e della adeguatezza dei comportamenti dei beneficiari.
L’integrazione del reddito va accompagnata da misure di integrazione sociale il cui contenuto specifico varia a seconda delle caratteristiche e i bisogni dei beneficiari, anche all’interno della stessa famiglia. C’è chi ha solo bisogno dell’integrazione di reddito per poter continuare nell’attività di ricerca di lavoro o di formazione, chi ha bisogno di orientamento e sostegno in questo, chi di entrare in un percorso di riabilitazione, chi di poter accedere a servizi di cura e così via.
Nel caso dei minori, la cosa più importante è il sostegno alla frequenza scolastica e l’arricchimento delle esperienze educative, in modo da rafforzare le loro capacità e interessi, ostacolando la riproduzione intergenerazionale della povertà. Mentre l’integrazione del reddito ha come riferimento la famiglia nel suo complesso, le misure di integrazione sociale devono avere come riferimento i singoli individui. Per questi aspetti non monetari occorre mettere in rete assistenti sociali, agenzie per l’impiego, associazioni datoriali, terzo settore nelle sue varie forme, scuola.
Il costo di uno strumento di questo genere, comprensivo dell’integrazione di reddito e di misure di integrazione e accompagnamento, varia a seconda di dove si pone la soglia di accesso e anche se e come vengono attuate le altre misure sopra brevemente descritte. Sulla base di entrambi questi elementi viene individuata una platea di potenziali beneficiari più o meno grande. Sia la Commissione Guerra che a suo tempo aveva elaborato la proposta di Sostegno di inclusione attiva (Sia), sia l’Alleanza contro la povertà con la proposta di Reis (Reddito di inclusione sociale), avevano suggerito di definire una soglia più bassa di quella della povertà assoluta, salvo innalzarla gradualmente.
Se si integrasse solo la metà della distanza dalla soglia di povertà assoluta, si stima che il costo si aggirerebbe sul miliardo e 700.000-due miliardi annui. Una cifra di tutto rispetto, certo, ma non impossibile (si spende molto di più per gli 80 euro ai lavoratori dipendenti a basso reddito individuale). Potrebbe anche essere integrata dalle Regioni e dai Comuni, sotto forma di servizi o di integrazione monetaria, tenendo conto che già oggi essi spendono per l’assistenza economica. È una cifra molto più bassa di quella ipotizzata nella proposta del Movimento 5 Stelle, che invece considera l’intera soglia di povertà, per giunta prendendo come riferimento la soglia individuata per i grandi Comuni del Nord, 781 euro per una persona non anziana sola, 200 euro in più di quanto stimato per una persona analoga in un grande comune del Mezzogiorno.
Tra i due approcci c’è spazio per trovare una mediazione, purché si concordi sulla non categorialità dello strumento e sulla necessità di mettere qualche cosa a regime subito, senza avviare ennesime sperimentazioni che in Italia sembrano essere solo foglie di fico per non fare nulla.
* Honorary fellow al Collegio Carlo Alberto di Moncalieri