PHOTO
Il nostro presidente del Consiglio ha recentemente affermato che la riforma del mercato del lavoro, il Jobs Act, assumerebbe come esempio e modello di riferimento quella fatta in Germania, dal governo guidato da Gerhard Schröder, all’inizio degli anni Duemila. Se davvero così fosse allora farebbe bene a ritirare il Jobs Act, perché questo provvedimento non c’entra proprio niente con quella riforma. Né nel metodo, né nel merito.
Purtroppo, questo parlare per slogan, riferendosi a materie che si conoscono poco e male, con l’obiettivo di conquistare un titolo sui giornali piuttosto che risolvere i problemi è un male atavico di un paese dalla cultura chiusa e provinciale, che – anche per questo – non riesce mai a diventare maggiorenne e ad assumersi fino in fondo le proprie responsabilità. Dopo quelle parole di Matteo Renzi, stampa e televisione si sono affrettate a spiegare il cosiddetto “modello tedesco”, con informazioni che di quel modello finivano per fare soltanto una grossolana caricatura.
Cos’è allora quella riforma, perché i tedeschi la realizzarono e cosa ha prodotto? Ovviamente, bisogna risalire a quegli anni per capirne le ragioni. Che, fondamentalmente, furono le seguenti: prima di tutto la riunificazione della Germania, poi l’apertura del mercato, la globalizzazione e, infine, l’adozione dell’euro. La riunificazione, come è noto, avvenne a tappe forzate, con l’impiego di ingenti capitali pubblici che fecero saltare i conti di quel paese, aumentando a dismisura il deficit e il debito pubblico.
D’altronde, si trattava di riunire due economie profondamente diverse fra loro per cercare di modellarne una tutta nuova. La recessione che ne seguì, determinò non solo la caduta del Pil, ma anche conseguenze pesanti sul mercato del lavoro, producendo – solo tra il 2000 e 2003 – 5 milioni di nuovi disoccupati. Tutto ciò avveniva proprio mentre il mondo si apriva, mettendo così in discussione, con la concorrenza di nuovi paesi (a cominciare dalla Cina), la fonte della ricchezza tedesca, che erano e sono le esportazioni. In aggiunta, nello stesso lasso di tempo, l’Ue decideva di adottare una nuova moneta, con tutto le incognite che questo comportava.
Fu davanti a questo scenario complessivo che la Germania decise di darsi un piano di rilancio, adottando la cosiddetta Agenda 2010, con l’ambizione strategica di riconquistare il ruolo di leadership in Europa e nel mondo. La riforma del mercato del lavoro fu un tassello di quel piano, assieme al rilancio delle politiche industriali e alla riforma fiscale per rilanciare i consumi. Tutto ciò avvenne confermando il metodo della concertazione e con il confronto (che fu anche molto duro) con le parti sociali. Anche per questo, come ministro del Lavoro, Schröder scelse il responsabile delle relazioni industriali della Volkswagen Peter Hartz, non come sfida al sindacato, ma perché il modello migliore e più avanzato di relazioni industriali in Germania è da sempre stato proprio quello della casa automobilistica.
Quale fu la logica di fondo della riforma? Quella di aumentare certo il tasso di flessibilità, ma non genericamente, bensì inserendola in un quadro di maggiore elasticità complessiva del sistema tedesco. La riforma del mercato del lavoro tedesco si inquadra infatti fra due altre riforme del lavoro. La prima, alla fine degli anni novanta, fu quella con la quale si realizzò la riforma della contrattazione, con l’adozione delle clausole di uscita concordate nei contratti, per tenere conto delle differenze fra Ovest ed Est del paese.
Questa riforma dette al sistema tedesco la prima flessibilità, quella territoriale. A essa seguì quella del mercato del lavoro, che in realtà, come vedremo, è una legge generale, ma con due campi di applicazione rigorosamente distinti tra l’industria e i servizi, tra il mercato esterno e quello interno. La flessibilità non si applica nel manifatturiero, dove vige e continua a vigere sempre e solo il contratto a tempo indeterminato. In questo modo, aggiungendo una seconda flessibilità: quella di comparto. Successivamente, con il contratto di lavoro dei chimici prima e con quello dei metalmeccanici poi, si è determinata la terza e ultima flessibilità, con l’introduzione delle deroghe aziendali al contratto nazionale, realizzando così una flessibilità settoriale.
E’ l’insieme di queste tre riforme che ha consentito in seguito alla Germania di respirare meglio, in sintonia con l’andamento del ciclo economico. Per quel che riguarda il mercato del lavoro, com’è del tutto constatabile oggi, s’intervenne suddividendo in due l’economia tedesca. In quello manifatturiero, come detto, resta rigidamente solo il contratto a tempo indeterminato. Perché? Perché è il settore che traina le esportazioni, e i tedeschi sul mercato vincono non solo per l’innovazione, ma anche per la cura e l’altissima affidabilità dei prodotti, per i quali serve professionalità e competenza elevatissime. In quei settori non puoi inserire lavoro occasionale e precario. La forza lavoro, per questo, viene curata e tutelata durante tutta la fase lavorativa attraverso un processo di formazione continua, curata e pagata dalle imprese, che anche nelle fasi di crisi riducono l’orario, ma non licenziano mai. L’unica flessibilità nel settore industriale è quella da prestazione. È la modulazione degli orari (orari ridotti o straordinari, a seconda del ciclo), ma non da mercato del lavoro.
Come consuntivo al 2014, la riforma Hartz ha trovato applicazione nell’industria solo per il 6 per cento, rappresentato solo da figure professionali atipiche a cui le imprese ricorrono temporaneamente attraverso il lavoro interinale. La flessibilità esterna è stata invece inserita nei settori dei servizi e in quelli protetti e non esposti alla concorrenza internazionale. In questo modo, realizzando peraltro un abbassamento complessivo dei costi e l’aumento conseguente della produttività media del sistema.
Quali i provvedimenti utilizzati? Primo, la revisione del tetto settimanale delle ore lavorabili part time, che possono arrivare a 32, ma con pluralità di scomposizione verticali, orizzontali o accorpate per giorni della settimana, ovviamente sempre reversibili. Secondo, l’abbandono dei limiti temporali per i contratti a termine, divenuti di fatto permanentemente reiterabili. Terzo, la rivisitazione del sussidio di disoccupazione – mediante la riduzione della quantità e della durata dello stesso –, con l’idea di stimolare la ricerca di un nuovo lavoro anche con qualifiche diverse dalla propria. Quarto – combinato con questo ultimo provvedimento –, l’introduzione dei famosi mini jobs, che prevedono la possibilità di poter lavorare anche poche ore mensili, ricevendo una retribuzione di 450 euro esentasse, ma cumulabile con il sussidio di disoccupazione, mentre le imprese che lo adottano pagano una contribuzione ridotta. Dove sono stati utilizzati? In tutti i servizi a bassa produttività di capitale, cioè ristorazione, settore delle pulizie, servizi alla persona, vendita al dettaglio e così via. I lavoratori che li utilizzano sono oggi in Germania 7 milioni e mezzo. Un provvedimento, questo, che suscita accesi dibattiti tra chi lo giudica come la modalità con la quale si è creata la figura del lavoro povero nel lavoro dipendente, e chi considera che aver inserito uno zoccolo certo molto basso, ma a partire dal quale si può solo salire i gradini del mercato del lavoro, abbia impedito, in un paese ad alto tasso di immigrazione, la diffusione del lavoro nero. Fenomeno che, infatti, in quel paese è del tutto sconosciuto.
È la stessa filosofia di intervento che ha prodotto oggi l’introduzione del salario minimo, dopo una lotta della Dgb durata 7 anni. Un salario minimo di 8,50 euro l’ora con l’obiettivo di trovare una soluzione alla diffusione del lavoro atipico e discontinuo, in settori che per la loro dispersione territoriale sono tradizionalmente a bassa possibilità di contrattazione, cercando di realizzare così, oltre a una tutela maggiore, anche un ruolo di rappresentanza sindacale dei lavoratori precari. Un tentativo, in fondo, di dare forma – seguendo un diverso percorso – all’idea Cgil di contrattazione inclusiva. Ora, di grazia, tutto questo cosa c’entra con il confuso, improvvisato e pasticciato disegno di legge di riforma del nostro mercato del lavoro?