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Siamo arrivati alla fine di questa estenuante fase “preparatoria” della riforma della pubblica amministrazione del governo Renzi e ciò che resta sul tappeto è ben poco rispetto alle aspettative che si sono volute ingenerare. Nessun ragionamento “di sistema”, nessuna proposta di ridisegno complessivo delle funzioni pubbliche, nessun approccio generale che possa farci leggere la possibilità di un progetto organico. Nulla che sia nulla sugli errori del passato, sulle controriforme Brunetta-Monti e sulla necessità di un loro superamento. E nulla, ancora, sulla crisi economica in corso, che ha inciso, fra le altre cose, sia sulla garanzia dei servizi ai cittadini, sia sulle condizioni di lavoro, aggravando, anche per questa via, una crisi istituzionale che è sotto gli occhi di tutti.
La pubblica amministrazione avrebbe avuto bisogno non di un dibattito fatto di mail, hashtag e post sui social, ma di una discussione vera, trasversale, coinvolgente, per certi versi anche appassionante, e questo anche al di là del rapporto che il governo Renzi intende avere con il sindacato. Così non è stato, ma ciò non esclude che così può ancora essere: si sottragga il tema delle pubbliche amministrazioni dall’agorà della comunicazione mediatica e si recuperi il tempo perduto, aprendo nel paese quella discussione che è mancata clamorosamente. Il sindacato confederale vuole, pretende, di fare la sua parte, e intende farlo non in difesa, ma rilanciando. Le proposte ci sono, la disponibilità a concorrere a un progetto di riforma che serve al paese pure.
Abbiamo bisogno di riorganizzare innanzitutto le istituzioni territoriali e il sistema di relazioni e responsabilità che le lega ai diversi livelli di governo della cosa pubblica. Nell’ultimo decennio la spesa inutile per eccellenza, e quindi da tagliare, è stata demagogicamente individuata in quella degli enti locali. L’assenza di una strategia precisa nell’affrontare il tema del riassetto complessivo del territorio ha aggravato le difficoltà e aumentato i problemi di funzionalità. Sono ormai indispensabili, quindi, riforme strutturali in questo senso, a cominciare da una nuova scrittura del Titolo V della Costituzione, dalla ridefinizione delle competenze attribuite a Stato e Regioni e da una nuova disciplina delle modalità di esercizio della potestà legislativa e della riduzione delle materie concorrenti.
Le Regioni, tanto per fare un esempio, devono riappropriarsi del loro ruolo di programmazione e legislazione, aggiungendo a ciò anche un rinnovato esercizio di coordinamento e regolamentazione delle funzioni locali. A valle di ciò, bisogna anche rivedere il sistema fiscale, ridefinendo il giusto rapporto tra funzioni attribuite e risorse economiche necessarie al loro esercizio, abbattendo, anche per questa, via gli sprechi, i costi impropri, le sovrapposizioni di enti e strutture. Occorre intervenire sulla miriade di società partecipate che esercitano impropriamente funzioni che la Costituzione assegna alle autonomie locali e colmare il vuoto che l’abolizione delle Province ha prodotto rispetto alle funzioni e al loro esercizio. Si chiariscano una volta per tutte le funzioni di area vasta, città metropolitane comprese, e si operi affinché questo livello di governance diventi strategico. Si renda obbligatoria la gestione associata dei servizi per i Comuni, realizzando così economie di scala efficaci: l’associazionismo comunale come obiettivo strategico per creare condizioni economiche favorevoli, assicurando la gestione ottimale delle funzioni. Si assuma l’obiettivo di creare, dalla fusione dei Comuni più piccoli, nuove comunità in grado di gestire più facilmente l’amministrazione del territorio: mezzi, professionalità, risorse, centri di acquisto in comune come leva per migliorare l’esercizio dell’intervento pubblico in queste comunità.
E poi lo Stato, o meglio le amministrazioni centrali dello Stato. La riforma che vogliamo non prevede in alcun modo l’abdicazione ai privati del ruolo di garanzia dei diritti di cittadinanza. Per questo abbiamo bisogno di una progettualità organica che non faccia considerare esclusa dal processo riformatore nemmeno un’amministrazione, nemmeno il più piccolo degli enti. Nessuno può essere escluso dall’innovazione e dal cambiamento: una riforma è tale se coinvolge lo Stato nella sua interezza. Alle amministrazioni centrali vanno affidati compiti di fissazione dei “livelli essenziali di qualità dei servizi” e di vigilanza e controllo, per garantire legalità a tutto il paese, mentre alle loro articolazioni periferiche va assegnata la funzione di gestione dei servizi, in stretto rapporto con Regioni ed enti locali. Non può più esistere un modello organizzativo totalmente avulso dai bisogni del cittadino: noi chiediamo si realizzino nel territorio poli unici dello Stato cui cittadini e imprese possano rivolgersi, senza duplicazioni e moltiplicazione dei costi; una nuova organizzazione delle amministrazioni che unifichi e riaggreghi quelle funzioni attualmente svolte da più soggetti, liberando risorse e tempo per cittadini e imprese.
Vogliamo cominciare – così, per indicare delle priorità – dalle ispezioni su sicurezza e regolarità del lavoro, dalle incombenze contributive-fiscali, dalle funzioni relative al mercato del lavoro e all’avviamento al lavoro? Noi siamo pronti. Ma per fare questo, se ne convincano la ministra Madia e il presidente Renzi, bisogna costruire una forte azione negoziale, che governi i processi di riorganizzazione delle pubbliche amministrazioni, a cominciare da quelli derivanti dai percorsi di riordino istituzionale. Un’azione che governi un sistema di deroghe alle normative attuali sui tetti di spesa del personale e che rafforzi, non annichilisca, il sistema delle relazioni sindacali, anche attraverso l’individuazione di nuovi livelli di confronto dove affrontare problematiche derivanti dai processi di riorganizzazione. In tutto ciò, due semplici e inequivoci presupposti: la salvaguardia dei livelli occupazionali, garantendo per questa via anche una prospettiva di stabilità dei rapporti di lavoro, a garanzia dei livelli quali-quantitativi dei servizi erogati; il ritorno dei contratti collettivi nazionali di lavoro a un ruolo di autorità salariale e strumento di propulsione di un livello integrativo partecipato, anche per migliorare l’efficienza dei servizi ai cittadini. Avranno abbastanza coraggio il presidente Renzi e la ministra Madia per dare gambe alla parola “rivoluzione”?
* segretario generale Fp Cgil