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Il numero 2/2018 della Rivista delle Politiche Sociali, curato da Nerina Dirindin e da Maria Grazia Giannichedda, dedica la sezione monografica al quarantesimo anniversario delle tre grandi riforme del welfare italiano: la legge 180 che ha chiuso e abolito il manicomio, la legge 194 per la tutela della maternità e l’autodeterminazione delle donne, che ha reso legale l’interruzione volontaria di gravidanza; la legge 833 che ha istituito il Servizio sanitario nazionale pubblico e universale. Il numero rilegge il percorso che ha portato all’approvazione delle riforme: accompagnato da lotte sociali, da esperienze innovative locali, da un ricco dibattito scientifico e culturale. Ma soprattutto propone, attraverso i vari interventi, di verificarne l’attualità delle tre riforme e il potenziale di innovazione sociale.
La sezione monografica è divisa in tre parti, ciascuna tratta una delle riforme. La prima parte si apre con il contributo di Benedetto Saraceno, che riflette su cosa è oggi la psichiatria, partendo dal movimento della Global mental health, nato nella seconda metà degli anni novanta all’università di Harvard con l’ambizione di far uscire la psichiatria “dall’asfittica dimensione biomedica della malattia mentale” per ridefinirne “le categorie prendendo in considerazione i determinanti sociali”. Saraceno, che pure sottolinea le potenzialità di questa impostazione intelligente e sostanzialmente progressista, conclude però che questo movimento si è mostrato incapace di affrontare e modificare la complessiva “arretratezza della realtà dell’assistenza psichiatrica” nel mondo, caratterizzata da “punte di eccellenza e punte di orrore”. Di qui la necessità di controbilanciare la tendenza a privilegiare aspetti di advocacy e generiche attività di educazione della comunità, attraverso azioni volte a modificare concretamente le istituzioni e investire nei servizi di welfare.
Il testo di Pietro Pellegrini e Daniele Pulino puntualizza il contenuto e le ragioni della legge 180 e percorre le diverse fasi della riforma, dalla drammatica situazione dei primi anni allo sviluppo dei servizi e alle sfide attuali. Afferma la validità del modello disegnato per un sistema di tutela della salute mentale effettivamente di comunità, alternativa a ogni forma di esclusione e internamento, per concludersi infine con alcune considerazioni sulla recente chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg).
Il testo successivo, di Franco Rotelli, prende le mosse dalla “dialettica tra istituzioni chiuse e istituzioni aperte”, che “rappresenta ancora oggi la questione principale per restituire diritti, dignità e potere alle persone”. Rotelli, guardando anche i nuovi muri che escludono i migranti o i “devianti”, racconta come nell’esperienza di Trieste i muri da abbattere fossero certamente quelli fisici dell’ospedale psichiatrico, ma poi anche quelli culturali della sanità più complessiva: i muri del rapporto tra ospedale e territorio, tra medici di medicina generale e medici specialisti, tra università, ospedali e servizi territoriali, per l’affermazione di un sistema di protezione sociale che vada verso i bisogni e i diritti delle persone, verso quella che egli definisce una “città che cura”.
Nel testo che chiude questa sezione, Claudia Demichelis, Carlo Gnetti e Gisella Trincas raccontano – con la voce di utenti e familiari – cosa significhi vivere l’esperienza della sofferenza mentale. Il loro saggio offre un’interessante raccolta di testi scritti da persone che sono state internate in manicomio e da persone attualmente seguite dai servizi di salute mentale e documenta i tanti rilievi critici che i famigliari sono ancora oggi costretti a sollevare.
La seconda parte della sezione tematica è dedicata alla legge 194, sull’interruzione volontaria della gravidanza e la tutela sociale della maternità. Il saggio di Chiara Saraceno rivela sin dal titolo (“Un diritto all’autodeterminazione parziale”) come la legge sia stata, e sia tuttora, ampiamente osteggiata. Un principale nodo irrisolto è il ricorso massiccio all’obiezione di coscienza, che continua a ostacolare l’esercizio di un diritto delle donne e la loro stessa sovranità sul proprio corpo”. Saraceno ricorda che il reato di aborto “rappresentava un esempio chiarissimo di come il diritto costruisse (e in parte ancora costruisca) il corpo della donna come spazio e proprietà pubblica, e perciò oggetto di normazione”: il contrario dell’habeas corpus che “fonda i diritti di cittadinanza a partire proprio dalla inviolabilità del proprio corpo e dalla propria signoria su di esso”.
L’articolo di Saraceno ripercorre i termini del dibattito, a momenti controverso e divisivo, e riflette sulle trasformazioni imposte da nuove questioni quali la riproduzione assistita, l’introduzione della Ru486 e la pillola del giorno dopo. Affronta infine la questione dell’aborto nella prospettiva di un utilizzo mite del diritto, sostenendo che temi delicati – come quello dell’inizio della vita o della sua fine – vanno rimessi al giudizio morale di ciascuno: nel caso dell’aborto, al giudizio delle donne, riconoscendone soggettività e capacità morale. E se, conclude Saraceno, nell’odierna situazione la legge 194 continua a essere sotto attacco, e la priorità è dunque difendere le conquiste avviate nel 1978, non bisogna rinunciare a riflettere sui nodi irrisolti della legge.
Franca Bonichi e Rossana Trifiletti ricostruiscono la storia dei consultori familiari, dall’approvazione della legge 405/75 fino ai nostri giorni, tentando un primo bilancio rispetto alla loro missione originaria. Descrivono il clima sociale e politico degli anni settanta e la situazione attuale, in particolare riferita alla diffusione dei consultori. Esprimono seri dubbi sulla valutazione positiva dei più recenti rapporti ufficiali (ministero della Salute e Istat). Giungono alla conclusione che i dati disponibili permettono di cogliere, accanto ad aspetti critici, anche alcuni elementi positivi: il consultorio, quando attivo e aperto al territorio, si dimostra “efficace nella prevenzione dell’uso improprio della 194 e capace di fungere da moltiplicatore culturale di una pratica moderna della contraccezione e dell’approccio sereno alla vita sessuale, anche a fondamento dell’emancipazione femminile”.
La terza parte del n. 2 di Rps è dedicata alla legge 833. Si apre con il contributo di Rosy Bindi: l’ex ministro della Salute ripercorre le tappe che hanno segnato la nascita del Servizio sanitario nazionale e la sua evoluzione fino ai nostri giorni, affermando che la tutela della salute come questione politica è diventata marginale. Il quarantesimo della legge diventa così un’occasione preziosa per riflettere su una delle riforme più significative realizzate in Italia e per motivare nuovamente cittadini e operatori rispetto al valore e all’attualità di quella scelta, che ha superato il sistema diseguale e dispendioso delle mutue, assegnando al Ssn il compito di attuare, in modo universale, il dettato costituzionale del diritto fondamentale alla tutela della salute.
Il saggio di Gavino Maciocco argomenta con forza “l’assalto all’universalismo” in atto in Italia da parecchi anni. Un assalto che è molto simile a quello che il ministro De Lorenzo tentò di realizzare nel 1992, solo che allora fu sconfitto, mentre oggi è molto più insidioso. Il saggio ripercorre le vicende del Ssn, con uno sguardo alla situazione internazionale, osservando come in Italia, diversamente da altri paesi (Regno Unito e Spagna), l’assalto all’universalismo non sia avvenuto per via esplicita, ma principalmente attraverso il de-finanziamento del sistema pubblico.
L’articolo sui processi di aziendalizzazione della sanità, di Emmanuele Pavolini, si concentra sulle caratteristiche e sugli effetti della trasformazione delle Unità sanitarie locali in aziende e sul conseguente ruolo del management. L’articolo si sofferma sulle varie forme di governance della sanità sviluppatesi in questi anni, in particolare con riferimento alla recente stagione del “gigantismo organizzativo”. Oggi, a un quarto di secolo dall’aziendalizzazione, la situazione è profondamente mutata: l’introduzione di strumenti propri delle aziende che operano sul mercato ha permesso forme di razionalizzazione della spesa, ma l’idea dell’autonomia dei manager delle aziende si è andata perdendo; l’attuale tendenza è alla ri-verticalizzazione e ri-politicizzazione dei processi decisionali.
Il saggio di Gianni Tognoni e Alice Cauduro utilizza il farmaco come indicatore complessivo della storia del Ssn, entrambi (il farmaco e il Ssn) caratterizzati da una “dipendenza dai protagonisti forti” (industria in primis, lobby più o meno politiche, mercato sempre più internazionale) e da un’interfaccia con la società per lo più occasionale e spesso conflittuale. Chiude la serie di interventi il contributo di Rossana Dettori, segretaria confederale della Cgil, “Il welfare fa bene all’Italia”. L’articolo segnala come le tre grandi riforme sociali del 1978 abbiano contribuito a migliorare le condizioni di vita dei cittadini e delle cittadine del nostro Paese. L’articolo ricorda il contesto politico e il percorso di mobilitazione sindacale e sociale che hanno accompagnato l’approvazione delle leggi. Sottolinea i punti di forza delle tre riforme, che non devono essere considerate semplici conquiste del passato, ma sono ancora estremamente attuali e conservano tutto il loro potenziale innovativo.
La sezione Attualità della Rivista delle Politiche Sociali si occupa di “Contrasto alla povertà e politiche di reddito minimo in Europa “, con due interventi: uno di Massimo Baldini, Gianluca Busilacchi e Giovanni Gallo, l’altro di Nicola Marongiu, coordinatore area welfare della Cgil nazionale. Chiude il volume, la sezione Dibattito, con gli articoli di Roberto Biorcio e di Michele Prospero sul recente libro “Populocrazia” di Marc Lazar e Ilvo Diamanti.
Stefano Cecconi è direttore de La Rivista delle Politiche Sociali