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L’Italia è tra i paesi europei in cui la proprietà della casa è molto diffusa anche tra le classi sociali più svantaggiate. Nel passato fordista del nostro paese, tramite la proprietà veniva riconosciuto anche lo status di cittadino partecipe di un modello di sviluppo che garantiva stabilità alla famiglia (anche attraverso la garanzia di una casa per la vita). Alla crisi del modello fordista e al conseguente venir meno dei presupposti che rendevano la proprietà una scelta strategica per non cadere in condizioni di vulnerabilità, non è tuttavia seguita una crisi dei presupposti simbolici che portano oggi molte famiglie italiane a risolvere il problema della casa tramite un investimento di lungo periodo, che non li protegge però necessariamente dal disagio abitativo e, anzi, li espone a diverse forme di vulnerabilità.
In Italia, più che altrove, il dibattito intorno alla proprietà della casa non può prescindere da una riflessione più ampia sulle disuguaglianze non solo nel presente, ma anche lungo il corso di vita individuale, guardando alla trasmissione del titolo di godimento tra le generazioni. La legge di stabilità per il 2016 prevede alcune misure che riguardano gli immobili. In primo luogo, dal 2016 non bisognerà più pagare la Tasi (la Tassa sui servizi indivisibili) per le abitazioni nelle quali si risiede. Questo vale per tutti, affittuari e proprietari, purché non vivano in abitazioni di tipo signorile, ville o castelli. In secondo luogo, non si dovrà più pagare l’Imu (l’Imposta municipale unica), che è invece una tassa che riguarda la proprietà. Anche in questo caso, non godranno dell’esenzione dell’Imu coloro che vivono in abitazioni signorili, ville e castelli.
Le nuove disposizioni, dunque, da un lato mirano a favorire tutti i cittadini, sgravandoli indistintamente dal pagamento della Tasi – ossia dal contribuire all’illuminazione pubblica o alla manutenzione delle strade – e, dall’altro, favoriscono una fascia della popolazione, i proprietari, di fatto sollevandola da un’imposta sul patrimonio. Questo intervento si inserisce perfettamente nella tradizione del nostro paese in tema di politiche per la casa. La cultura della proprietà in Italia ha infatti radici profonde, che sono state alimentate da politiche pubbliche che nel secolo scorso hanno tenuto bassa l’offerta di case in affitto e alta quella di case in vendita. La politica del credito, poi, ha spinto all’acquisto della casa molte famiglie che avrebbero preferito abitare in affitto. In questo modo, si è costituito uno strumento che, di fatto, ha rastrellato il risparmio di quelle famiglie che hanno acconsentito a pagare alte rate per decine di anni, “ossia per il tempo necessario a svalutare” il valore della casa acquistata” (L. Bortolotti, Storia della politica edilizia in Italia, Editori Riuniti, 1978).
Dal punto di vista normativo, una tappa significativa è rappresentata dalla legge 392/1978, che ha introdotto l’equo canone e ha fissato vincoli stringenti alla possibilità dei proprietari di innalzare gli affitti. La legge sull’equo canone venne approvata per dare risposta sia a una forte conflittualità sociale sul tema del diritto alla casa, sia alle richieste di rimozione del blocco degli affitti da parte della proprietà edilizia . Questa misura ha indotto molti proprietari a ritirare gli immobili dal mercato delle locazioni per metterli in vendita, dal momento che i margini di guadagno consentiti dagli affitti si erano decisamente ridimensionati.
La spinta delle politiche pubbliche verso la proprietà si inserisce in un quadro generale di riduzione dell’offerta di case popolari a partire dagli anni ottanta, che ha costretto molte famiglie povere a rivolgersi al mercato della proprietà per mancanza di alternative. Il ritiro del settore pubblico dagli investimenti immobiliari a fini sociali è stato infatti particolarmente marcato. Dal 1985 al 2005, si è passati da volumi di edilizia agevolata attorno al 20% del totale degli immobili edificati a meno del 4%. Ma l’intervento pubblico di promozione dell’acquisto di casa si è espresso anche attraverso incentivi fiscali, come quelli contenuti nell’attuale legge di stabilità.
A questo proposito ricordiamo anche le agevolazioni per l’acquisto della prima casa, la riduzione delle imposte per venditore e acquirente della prima casa, le agevolazioni a soci di cooperative di abitazione e le detrazioni fiscali per le spese di ristrutturazione e messa a norma delle abitazioni. Attraverso tutte queste azioni, nell’arco degli ultimi trent’anni, lo Stato ha di fatto incentivato la proprietà, contribuendo a definire non solo la cultura della casa di proprietà, ma anche la cosiddetta “società dei proprietari di casa”.
Dato questo scenario, viene allora da chiedersi chi siano i soggetti che rimangono in affitto in Italia oggi. Certamente coloro che nonostante tutti gli incentivi non riescono ad accedere alla proprietà. Una delle conseguenze è che le situazioni più gravi di disagio abitativo riguardano in misura prevalente gli affittuari. Questo perché, sebbene l’essere proprietari non implichi necessariamente l’essere protetti dal disagio abitativo e dalla povertà, gli affittuari sono coloro che vivono in abitazioni spesso inadeguate, in quartieri degradati, che sperimentano il sovraffollamento e che fronteggiano frequentemente la difficoltà di sostenere i costi per la casa.
In merito alla relazione tra casa e diseguaglianza, la storia delle politiche abitative in Italia è, dunque, quella di politiche produttrici di disuguaglianze. In un momento di grande scarsità di risorse, come quello attuale, le politiche dovrebbero fronteggiare primariamente le situazioni in cui il disagio abitativo e l’incidenza di povertà sono maggiori: in altre parole, quelle degli affittuari. Le attuali politiche abitative supportano invece unicamente la proprietà, mentre la lunga scia della crisi economica che l’Italia sta vivendo richiederebbe uno sforzo redistributivo volto a ridurre le disuguaglianze, o almeno a non aumentarle.
Ma non basta. L’ultima legge di stabilità non solo non si fa carico del problema abitativo della fascia più debole della popolazione, ma fa di peggio, estendendo l’esenzione della Tasi e dell’Imu (pur a determinate condizioni) alle abitazioni di proprietà in cui risiedono parenti in linea diretta entro il primo grado. Un esempio illuminante sulle conseguenze di misure come questa riguarda una delle transizioni cruciali nel percorso di vita dei giovani: l’uscita dalla casa dei genitori.
I giovani italiani, come noto, sono tra gli ultimi a lasciare l’abitazione dei genitori se messi a confronto con i loro coetanei europei. La retorica che fa leva su immagini semplificate e poco realistiche di giovani pigri a cui fa comodo stare a casa e che non hanno nessuna fretta di emanciparsi, nasconde e nega le condizioni strutturali in cui l’uscita dal nucleo di origine avviene in Italia. Ne sia un esempio, il fatto che l’attuale legge di stabilità non prevede alcun tipo di sostegno per un giovane che viva con i genitori in un immobile in affitto senza altre proprietà e che voglia andare a vivere da solo, trovandosi di fronte un mercato immobiliare piuttosto rigido.
I costi connessi alla contrazione di un mutuo (sempre che venga concesso) o l’affitto di una casa in cattive condizioni in una zona degradata e senza servizi sono spesso troppo alti: rimanere a casa dei genitori rappresenta un’alternativa preferibile, e spesso strategica, anche nell’attesa del momento in cui l’uscita di casa diventerà sostenibile. Al contrario, un coetaneo di questo ipotetico giovane che vivesse nella casa di proprietà dei genitori e si trasferisse in una seconda casa di loro proprietà, uscendo di casa potrebbe permettere all’intero nucleo familiare di essere sgravato dal pagamento di Tasi e Imu su entrambi gli immobili.
In questo modo, si realizza una misura di riproduzione delle disuguaglianze sociali da manuale: purtroppo, però, non è di un esempio da manuale che si sta parlando, ma di una legge di stabilità che in futuro condizionerà, negativamente, le opportunità di vita di molte famiglie, e dei loro figli, nel nostro Paese.