Oggi come ieri. Come l’8 agosto di 60 anni fa, quando si è consumata la tragedia di Marcinelle, con la morte di 262 minatori, erano passati solo 11 anni dalla fine del secondo conflitto mondiale. L’Italia era distrutta: non c’era più economia e la miseria era il comun denominatore di tutte le famiglie. In questo contesto, l’accordo di scambio di manodopera con il Belgio aveva fatto sperare tanti uomini e tante donne in una vita migliore, anche se lontano da casa (ma quale casa, se l’aveva distrutta la guerra!).

I numerosi viaggi della speranza di tanti minatori si sono tradotti in percorsi disperati verso quel Paese, che prometteva salario e benessere. Un sogno che si è infranto subito, quando quelle persone si sono dovute scontrare con le dure condizioni di lavoro, baracche fatiscenti dove alloggiare e con un sentimento di intolleranza diffuso verso di loro da chi li vedeva come una minaccia. La tragedia di Marcinelle è diventata il simbolo di un lavoro brutale che toglie dignità alla persona, e persino la vita.

In quel contesto, parlare di integrazione era un po’ paradossale. I belgi, anche loro colpiti dal conflitto mondiale, dovevano fare i conti con la disoccupazione, altissima pure per loro. Lo ricorda un bel libro di Anne Morelli (“Recherches nouvelles sur l’immigration italienne en Belgiche”, edito da Couler Livres), presentato il 12 luglio scorso a Marcinelle, durante la celebrazione dei 60 anni dalla tragedia, promossa e realizzata da Inca Belgio. Per tali motivi, l’arrivo degli emigrati italiani non era certo visto con favore: “Tolgono lavoro a noi”, era il refrain dei belgi. “Quei musi neri (così li chiamavano per il colore che la pelle assumeva dopo ore e ore passate a quasi un chilometro di profondità a estrarre carbone, ndr) accettano salari bassi e sono disposti a tutto pur di mantenerseli”, a scapito di qualsiasi minimo rispetto della sicurezza nelle miniere, fonte primaria di un’economia tutta da ricostruire a beneficio degli imprenditori, che – approfittando del basso costo della manodopera – si reinventavano dopo la guerra un nuovo modo per fare profitti.

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Grazie alla mobilitazione dei sindacati, in seguito a quei fatti, si produsse un autentico sconvolgimento del sistema sociale, con effetti progressivamente positivi sulla legislazione sociale di quasi tutti i Paesi dell’Europa e per l’immagine stessa del minatore. La battaglia per la sicurezza sui luoghi di lavoro prende forza e aumenta l’attenzione anche del mondo scientifico e dei legislatori sui danni causati dalla silicosi e dagli effetti distruttivi sull’apparato respiratorio. Battaglia lunga, difficile, di fatto mai conclusa. “Difficile soprattutto – ricorda Morena Piccinini, presidente dell’Inca – in un’epoca in cui la prevenzione era una parola priva di effettivo significato e il rischio era quasi inteso come un’ineluttabile componente del lavoro, una sorta di prezzo da pagare per ottenere la possibilità di una sopravvivenza dignitosa. Per cambiare queste cose ha tanto contribuito l’Inca, voluto dalla Cgil per tutelare i lavoratori in Italia e nel mondo”.

Un’attività di tutela grazie alla quale il patronato, appena costituito al momento della tragedia di Marcinelle, portò i primi soccorsi, sostenne i familiari delle vittime, promosse l’azione giudiziaria per accertare le responsabilità penali del disastro, fornì un contributo importantissimo al riconoscimento in Belgio della silicosi come malattia professionale. “Non dobbiamo sottovalutare il percorso di integrazione dei migranti in Europa – prosegue Piccinini –, il contributo essenziale dato per lo sviluppo e la creazione di ricchezza nei Paesi che li hanno accolti, le battaglie di tutti i lavoratori per il lavoro, la dignità, i diritti sociali e di cittadinanza”. Oggi come ieri, la crisi mondiale delle economie occidentali ripropone le stesse contraddizioni, con qualche elemento di complessità in più dovuto alla globalizzazione, che accentua – anziché attenuare – le disuguaglianze sociali. I bisogni delle popolazioni delle nazioni più ricche, attanagliate da una disoccupazione galoppante, che investe soprattutto i giovani e non risparmia neppure le persone ad alta scolarità e specializzazione, si contrappongono a quelli dei migranti che fuggono dalla miseria e dai conflitti dei Paesi del Medioriente e dell’Africa.

Esattamente come succedeva 60 fa, uomini e donne premono ai confini dell’Europa per cercare il loro piccolo spazio di benessere. Il vecchio continente, anziché trarre insegnamento dalla sua stessa storia, si mostra fragile, confuso, incapace di prendere decisioni nel rispetto di quegli stessi principi di giustizia sociale e di solidarietà, che pure si era dato sin dall’inizio del processo di unificazione, per non ripetere più le tragedie del passato e assicurare la pace. “La crisi finanziaria iniziata nel 2007 – spiega ancora Piccinini – ha riacceso gli egoismi nazionalistici, offrendo il fianco a chi vuole ricostruire le frontiere, vedendo in esse la possibilità di non mettere in pericolo la propria ricchezza personale, come se questa potesse essere una variabile indipendente da quel che succede nel mondo. La precarizzazione del lavoro in Europa, che investe tutti i lavoratori, non dipende dalle ondate migratorie, ma dalla prevaricazione della finanza sull’economia reale, che ha ridotto al fallimento intere filiere produttive, sacrificando milioni di posti di lavoro e riducendo alla povertà intere generazioni di persone, imponendo per questa via uno squilibrio della distribuzione delle ricchezze”.

In questo contesto, a prevalere è il sentimento della paura, che condiziona le nostre scelte e quelle di chi ci governa, ha sottolineato lo scorso 13 luglio a Marcinelle Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, intervenuta a una tavola rotonda promossa dall’Inca per ricordare quei minatori, caduti sul lavoro, che hanno avuto per unica colpa quella di aver creduto nel sogno e nella speranza di uscire dalla miseria. Una speranza che si è poi concretizzata in un lungo periodo di pace, accompagnato da un processo di unificazione dei Paesi europei attraverso l’affermazione di un sistema di diritti e di protezione e di sicurezza sociale universale. “Da quei valori dobbiamo ripartire – è l’auspicio di Piccinini –, convinti che i diritti dei lavoratori e dei cittadini non sono un’aggiunta, un derivato dell’Europa moderna, ma sono e sono stati lo strumento principale e indispensabile per costruire le democrazie occidentali”.

Per la Cgil e l’Inca, l’imperativo è dunque vincere le paure, come quelle che hanno determinato la decisione del Regno Unito di uscire dalla comunità europea dopo aver ottenuto deroghe e deroghe per difendere il proprio sistema di welfare, limitando l’accesso ai soli autoctoni e scoraggiando il cosiddetto turismo sociale dei migranti. Una contrapposizione di interessi che si è puntualmente riproposta in altri Paesi, anche in quelli dell’Est, le cui frontiere vengono ricostruite improvvisando chilometri di filo spinato, pur di impedire l’ingresso di cittadini di Paesi terzi. Una decisione che sorprende e che preoccupa, perché smentisce le stesse Direttive europee sull’argomento e gli stessi principi fondativi dell’Unione.

È un processo pericoloso quello che si sta configurando, le cui conseguenze potrebbero ricreare i presupposti di quella stessa intolleranza che ha prodotto le tragedie del XX secolo. “Siamo ancora in tempo per fermare questa direzione – è il richiamo di Piccinini –, ma occorre lo sforzo di tutte le forze democratiche, istituzioni, sindacati e partiti, che credono nella solidarietà e nell’uguaglianza dei diritti, senza distinzione di razza o di religione. Dobbiamo farlo per noi, ma soprattutto per le future generazioni, verso le quali dobbiamo sentire il dovere di consegnare un’Europa unita nei valori democratici di uguaglianza e giustizia sociale, che hanno caratterizzato 70 anni di pace segnando l’emancipazione dei popoli”.