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“Il costo del ‘business’ nello stato schiavistico del Qatar è la negazione dei diritti e delle libertà fondamentali per 1,8 milioni di lavoratori migranti”. È con questo atto d’accusa netto e coraggioso che Sharan Burrow, segretario generale dell’International trade union confederation (Ituc), introduce il “Frontlines Report 2015”, redatto dalla Confederazione sul Qatar e sui lavori che il paese arabo sta realizzando per i Mondiali di calcio del 2022. Un atto d’accusa che non risparmia nessuno: governo, imprese di costruzione, multinazionali, catene alberghiere e di distribuzione, università occidentali, tutti complici nel mantenere un sistema fondato sul “modello della moderna schiavitù, che nega i diritti umani e del lavoro e istituzionalizza l’abuso, la povertà dei salari, le condizioni di lavoro estreme e le squallide condizioni di vita”. Parole durissime, quelle di Burrow: “Il Qatar è una prigione a cielo aperto e i suoi leader vogliono mantenerla così”.
La Coppa del mondo Fifa 2022 è un “business” gigantesco. Il volume d’affari complessivo è superiore ai 200 bilioni di dollari (ricordiamo che un bilione è pari a mille miliardi), di cui beneficiano anzitutto le corporation di costruzioni e logistica dell'Europa occidentale e degli Stati Uniti (attraverso joint venture con partner locali). “Il Qatar – spiega il rapporto Ituc – ha bisogno non solo di costruire nuovi stadi di calcio per le partite, ma, a differenza delle altre nazioni ospitanti più recenti, il piccolo Stato del Golfo ha bisogno di costruire anche tutto il resto, come alberghi, nuovo, aeroporto, campi di allenamento, trasporti pubblici, strade, reti di elettricità e acqua, infrastrutture di ogni genere”.
I lavoratori migranti sono impiegati sei giorni su sette, per 78 ore a settimana. Gli straordinati non sono pagati e la temperatura arriva fino a 49 gradi
Attualmente lavorano in Qatar 1,8 milioni di migranti: il gruppo più numeroso proviene dall’India (800 mila), seguono i lavoratori del Nepal (700 mila). Non è facile indicare esattamente il numero di infortuni, a causa del rifiuto del governo di pubblicare statistiche specifiche o consentire indagini indipendenti. Un calcolo realizzato sulla base dell’Health Report 2013 del Qatar (pubblicato nell’aprile scorso), che riporta il tasso di mortalità per gli stranieri in età lavorativa, raggiunge l’impressionante cifra di 1.091 decessi all'anno. Da qui la stima dell'Ituc “che più di 7 mila lavoratori moriranno prima che un pallone sia calciato alla Coppa del mondo”.
Ma la cifra potrebbe essere sottostimata: dai ufficiali dei governi di India e Nepal affermano che dal 2010 sono morti in Qatar 1.993 lavoratori. Riguardo le cause, infine, dall’Health Report si apprende che il 44,2 per cento dei decessi avviene per “cause interne” (cioè malattie, come “gli effetti della disidratazione da calore estremo sul lavoro e di notte nei campi di lavoro), il 22,6 per “cause esterne” (ossia traumi, che comprendono “gli incidenti sul posto, come cadute o essere colpiti da oggetti e da veicoli) e il 33,2 per “cause non classificate”.
Il mondo del lavoro in Qatar si basa sul cosiddetto Kafala: questo significa che i lavoratori migranti “sono controllati da un'altra persona: non possono lasciare il paese (i loro passaporti sono sequestrati), o lavorare per un'altra società, senza l’assenso del loro datore di lavoro; è negato loro il diritto alla libertà di associazione e alla contrattazione collettiva; è negato loro il diritto di prendere in prestito denaro da una banca, di affittare una casa o di ottenere la patente di guida senza l’assenso del datore di lavoro”. Una moderna forma di schiavitù, appunto, che vede i lavoratori esposti all’arbitrio e privi di protezione. Che vede, si legge nel Frontlines Report, la connivenza dell’Occidente: “L'orrore è che i governi di tutto il mondo sono in silenzio. Prendono i soldi dal Qatar e mandano politici di alto livello a capo di missioni diplomatiche e commerciali, ma non riescono a chiedere diritti e libertà fondamentali”.
«Un modello di moderna schiavitù, che nega i diritti umani e del lavoro e istituzionalizza l’abuso e la povertà dei salari» denuncia il segretario dell'Ituc
Gli operai che stanno costruendo a Doha il Khalifa Stadium, ad esempio, sono impiegati 13 ore al giorno per sei giorni, per complessive 78 ore settimanali, con una paga oraria di 1,3 euro. E sono tra quelli pagati meglio: “Per andare a lavorare in Qatar, nel settembre 2014, ho pagato all’agenzia di reclutamento 75 mila rupie nepalesi (pari a 630 euro)” racconta Aardash, lavoratore nepalese di 22 anni. “Il contratto firmato a Kathmandu – continua – era di elettricista, per 1.200 rial qatarioti (300 euro). Ma arrivato in Qatar ho dovuto firmare un contratto diverso: da operaio, per 800 rial (200 euro)”. E arriviamo alle condizioni di lavoro: “Ho lavorato sotto il sole fino a 49 gradi, più volte ho sanguinato dal naso. Mi è stato permesso di riposare per un po’, ma poi ho sempre dovuto riprendere a lavorare. Non sono mai stato pagato per il lavoro straordinario. Un giorno sono caduto e mi sono rotto il braccio, ma l'azienda non ha coperto tutte le spese mediche”.
I lavoratori stranieri sono “ospitati” in “campi di lavoro” siti nelle aree industriali o nei quartieri periferici della città. “Al campo di lavoro ci fornivano solo l’acqua, e soltanto a volte, il resto lo abbiamo dovuto comprare. Abbiamo condiviso una stanza in sei persone, avevamo 12 bagni per 120 persone e una cucina per 20 persone” riprende Aardash: “Per il cibo c'era un solo negozio, appena al di fuori del campo, e nessun altro negozio nelle vicinanze”. Dopo i loro spostamenti i lavoratori, si legge nel Report, tornano nei “campi di lavoro sovraffollati e squallidi, con servizi limitati, nessun accesso all'acqua potabile e poche possibilità di ripararsi dal caldo. Molte parti di Doha, inoltre, sono designate come ‘zone di famiglia’: sono quindi off-limits per i lavoratori migranti, limitando ulteriormente la loro libertà di circolazione”.