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Il livello di esposizione ai rischi chimici e biologici, oltre a quelli legati alle posture scorrette e ai continui movimenti, è molto alto. Ma la conoscenza dei pericoli del proprio lavoro, e quindi la formazione erogata dalle imprese, è davvero scarsa. Per i lavoratori del settore delle pulizie industriali, insomma, la tutela della salute e sicurezza è davvero una priorità. A fare il punto su questo comparto in continua crescita, che attualmente annovera in tutta Europa 1 milione 700 mila addetti, per un terzo occupati con contratti a tempo determinato e part-time (ma anche senza contratto), è il rapporto “Industrial cleaning: working conditions and job quality” (scarica il pdf, in inglese), pubblicato di recente dalla Fondazione di Dublino.
La ricerca offre una panoramica delle condizioni e della qualità del lavoro nel campo delle pulizie industriali, con un’importante sezione dedicata alla salute dei lavoratori in 34 paesi europei. Un settore dominato dalla piccola e micro impresa (la metà dei lavoratori è in aziende di 1-9 addetti), a prevalenza femminile (56 per cento del totale) e una quota considerevole di ultracinquantenni (30 per cento), con una media lavorativa di 31 ore a settimana. Il lavoro si svolge con orari regolari e abbastanza tipici (i fine settimana o le notti sono poco frequenti), e con modalità tradizionali (la rotazione dei compiti, ad esempio, è piuttosto rara).
La formazione in salute e sicurezza, si diceva, è davvero scarsa. Soltanto il 14 per cento dei lavoratori ha ricevuto un addestramento pagato dal datore di lavoro, una quota che scende ancora più in basso per le donne e per gli addetti under 35. “In Italia abbiamo semmai il problema opposto” spiega Elisa Camellini, segretaria nazionale Filcams Cgil: “la formazione è obbligatoria, quindi viene realizzata. Ma la gran parte delle aziende la considerano solo un adempimento da eseguire, non un’occasione di crescita professionale e di innalzamento della qualità del lavoro”. Nelle imprese di grandi dimensioni, conclude Camellini, la situazione “è un po’ più strutturata, anche in virtù delle richieste di contributi ai fondi interprofessionali, mentre nelle piccole è tutto molto più difficile. Ma in generale la formazione è percepita come un costo aggiuntivo, e non come un investimento per avere benefici permanenti in termini di prevenzione della salute e sicurezza dei lavoratori”.
Tornando alla ricerca, un primo rischio è quello legato all’alta intensità del lavoro e al basso livello di autonomia, soprattutto nelle piccole aziende: un mix che può comportare elevati livelli di stress, che a propria volta possono provocare “una gamma di disturbi stress-correlati, come le malattie cardiovascolari e i problemi di salute mentale”. Ma i pericoli più consistenti sono quelli legati all’esposizione ai rischi biologici e chimici e quelli connessi a posture, movimenti e ambiente circostante. Quasi un quinto (18 per cento) dei lavoratori nella pulizia industriale ha ricevuto scarsa o nessuna informazione su questi rischi, con una particolarità: i lavoratori non informati aumentano con il crescere delle dimensioni d’impresa, piuttosto che diminuire come solitamente accade.
Gli addetti del settore presentano, rispetto a quelli di tutti gli altri settori, una quota maggiore sia di assenteismo dovuto a infortuni sul lavoro sia di “presenteeism”, ossia l’andare al lavoro pur essendo malati; inoltre, più degli altri avvertono la propria salute come “cagionevole” (31 contro 21 per cento) e a rischio a causa del lavoro (29 contro 23 per cento). Infine, solo il 39 per cento (contro il 58 per cento generale) si ritiene in grado di continuare a svolgere le stesse mansioni giunto a 60 anni.