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Cgil, Cisl e Uil si sono dichiarate a sostegno delle parti civili, come nel precedente giudizio del 2006 contro i militari golpisti argentini, nel processo al Plan Condor che si è aperto nei giorni scorsi nell’aula bunker di Rebibbia, a Roma. Nel corso del 2015, saranno chiamati in Italia oltre 100 testimoni chiave dal Cile, dalla Bolivia, dall’Argentina e dall’Uruguay: sindacalisti, intellettuali, politici, familiari delle vittime della più grande operazione internazionale di repressione politica compiuta negli anni settanta e ottanta in America Latina.
Il Plan Condor, chiamato anche Operazione Condor, ha origini lontane, negli anni sessanta del secolo scorso, quando il Dipartimento di Stato degli Usa svolgeva il ruolo di vero e proprio controllo sugli Stati latinoamericani, considerando l'America a sud del Rio Grande il “proprio giardino di casa”.
Un controllo politico per fare affari e per evitare l'insediamento di governi popolari o il diffondersi dell'esperienza cubana dei barbudos di Fidel Castro. Ma il “giardino di casa” venne messo in discussione con l'ascesa al potere di Salvador Allende, in Cile, con l'esperienza del governo dell'Unidad Popular (1970-1973), che fece scattare l'allarme del pericolo comunista, con l'attivazione della politica di sicurezza nazionale affidata ai militari golpisti e scatenando il sistema repressivo dentro e fuori dai confini di quei paesi.
Golpe dopo golpe, i militari presero il potere, in Bolivia (1971-1978), Cile (1973-1988), Uruguay (1973-1988) e Argentina (1976-1983), con il Dipartimento di Stato Usa impegnato a fornire assistenza, formazione e strategie militari, imponendo e sperimentando nuovi modelli economici (vedi scuola di Chigago).
In una dimensione sovranazionale eversiva e repressiva, costruita con l'appoggio di quelle forze militari corrotte e ideologicamente formate nella base militare statunitense a Panama, la Escuela de las Americas, oggi divenuta un hotel turistico a 5 stelle, non poteva mancare un piano repressivo regionale, in grado di intervenire dovunque, senza dover rispondere ad alcuna legge, con piena libertà d'azione e copertura istituzionale.
Così le dittature militari della America del Sud, con la regia degli Usa, diedero vita al Plan Condor per eliminare i “sovversivi”, dovunque fossero e ovunque si nascondessero. Come è ben riportato nel sito dell'Associazione 24Marzo, nata proprio per non dimenticare e per recuperare verità e giustizia, il Plan Condor può essere così descritto: “...come emerge dal rapporto della Commissione dei Diritti Umani argentina (del 1990), già a metà degli anni settanta le forze repressive del Cono Sur controllavano la regione con un saldo di 4 milioni di esiliati in paesi limitrofi, 50.000 omicidi, almeno 30.000 desaparecidos, 400.000 imprigionati e 3.000 bambini assassinati o scomparsi”.
Per le democrazie dei paesi latinoamericani la storia delle dittature, con i desaparecidos e le violenze impunite, non può essere chiusa con un colpo di spugna e con la rimozione di quella che possiamo considerare una mutilazione alle parti vitali di una società, come è stata la perdita migliaia di uomini e donne, la tortura e la repressione quotidiana e sistematica perpetrata per decenni, la cultura della paura e del terrore.
Con il ritorno alla democrazia e la fine delle dittature, si è chiusa una bruttissima pagina di storia di questi paesi, ma si è aperto il bisogno collettivo, oltre che personale e familiare, la speranza di poter finalmente conoscere la verità su quanto accaduto ai propri cari scomparsi e del riconoscimento della giustizia, l'individuazione e le responsabilità di chi si è macchiato di crimini, di chi ha coperto e nascosto i colpevoli.
Riconoscere i torti subiti, punire i colpevoli, restituire i corpi o conoscere la fine dei desaparecidos, restituire l'identità ai neonati strappati alle proprie famiglie e nascosti presso altre famiglie consenzienti, è stato e rimane l'impegno di tante persone e tante associazioni che abbiamo imparato a conoscere in questi anni, dalle madri alle nonne di Plaza de Mayo, grazie alle quali i diversi governi succedutisi in Argentina hanno progressivamente trovato il coraggio e la responsabilità di riaprire le porte della giustizia. Un percorso complesso e tortuoso, che è utile qui riportare, per capire il significato del processo all'Operazione Condor.
In Argentina, con la legge di Punto final y Obediencia debida, approvata nel 1986 dal governo di Raul Alfonsìn, si creò l'immunità a tutti i militari golpisti e ai loro complici, bloccando ogni tentativo di processo, fino al 2003, quando la stessa legge fu dichiarata illegale e si riaprì la possibilità di fare giustizia.
In Cile, i militari golpisti accettarono il passaggio alla democrazia, avvenuto mediante il referendum del 1988, ma si garantirono il controllo della giustizia e un sistema istituzionale bloccato, impedendo riforme e leggi che non contassero con il loro consenso. Le denunce contro militari o agenti della Dina (Direcciòn de inteligencia nacional) furono sistematicamente archiviate in base alle leggi di amnistia.
Nel 1991-1992 la Commissione nazionale per la verità e la riconciliazione identificò i casi di tortura e di desaparecidos, ottenendo risarcimenti ai familiari delle vittime e agli esuli tornati in patria. Ma la giustizia ha potuto muoversi solamente dal 1998, quando il giudice spagnolo Garzòn, emise un mandato di cattura internazionale contro Pinochet, bloccandolo per quasi due anni a Londra. Quell'evento permise, o obbligò, le istituzioni cilene ad aprire i processi contro i militari golpisti nel proprio paese, rompendo il muro delle amnistie, dell'oblio e della cancellazione della memoria.
In Uruguay, si combatte da anni una durissima battaglia contro la Ley de caducidad (prescrizione), che concede l'amnistia ai militari colpevoli di omicidi politici tra il 1973 e il 1985. Il 20 maggio 2011 sembrava che la legge fosse davvero sulla via dell'abrogazione, ma l’incredibile astensione di un deputato del Fronte Amplio (la coalizione del centro-sinistra, oggi al governo), che sotto il regime militare era stato anche torturato, ha consentito il suo mantenimento in vigore, con la sentenza della Corte Suprema de Justicia, del 22 febbraio 2013.
In Brasile, dal 2012 si è finalmente insediata una Commissione nazionale per la verità, che però può indagare solo sui casi di tortura e senza giudicare i repressori. Questo grazie a una legge di amnistia varata su misura nel 1974, che impedisce ai responsabili del Periodo de plomo (anni di piombo) di essere sottoposti a processo.
In Bolivia, nonostante alcuni timidi tentativi di ricostruire la verità e fare giustizia sui crimini e gli assassinii perpetrati dai militari golpisti dal 1964 al 1982, come sono stati i processi contro il generale Luis Garcia Meza e i suoi complici, la strada è ancora tutta in salita. L'ultima legge in materia, approvata nel 2004, (Ley 2640 de Resarcimiento excepcional a víctimas de la violencia política en gobiernos inconstitucionales), non ha prodotto quanto sperato, sia per la sua farraginosità che per la mancanza di risorse, come segnalato dal rapporto di Amnesty International del 2014.
Appare insomma chiaro che la ricostruzione della verità e della giustizia per i crimini realizzati in America Latina nel corso degli anni settanta e ottanta è un processo lungo e difficile, con implicazioni delle alte sfere istituzionali, ancora oggi condizionato da minacce, resistenze, omertà, coperture e con ramificazioni ben oltre i confini delle singole nazioni.
È in questo quadro che l’indagine sull'Operazione Condor (Plan Condor), avviata in seguito alla denuncia presentata il 9 giugno del 1999 dai famigliari di 8 italiani desaparecidos vittime della repressione, assume un doppio significato, di giustizia e politico. Un’inchiesta molto complicata che si è conclusa nel giugno del 2013, dopo oltre 10 anni di indagini, con la richiesta di 35 rinvii a giudizio e l'apertura del processo.
La richiesta del rinvio a giudizio per i reati di strage, omicidio plurimo aggravato, sequestro di persona e altro, vede come imputati due boliviani, 12 cileni, 7 peruviani e 17 uruguaiani di età compresa tra i 64 e i 92 anni. A loro, il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo attribuisce la responsabilità dell’eliminazione di 23 cittadini italiani scomparsi tra il 1973 e il 1978.
Ma per arrivare all'apertura vera e propria del processo, occorre arrivare ai giorni nostri, con la convocazione della prima udienza nella terza corte d’assise di Roma, nell'aula bunker di Rebibbia, la stessa dove nel 2006 si realizzò l'altro processo ai militari argentini, che ha visto la partecipazione di tanti testimoni provenienti da ogni angolo del Sud America, dall'Argentina, dal Cile, dall'Uruguay, dalla Bolivia e dal Brasile.
Dalla figlia di Salvador Allende ai sindacalisti che riuscirono a salvarsi – ma che videro cadere sotto i colpi dei torturatori i loro compagni e le loro compagne di lotta –, alle mogli e ai figli che persero il loro cari, a tutti coloro che finalmente possono ricordare in un tribunale, di fronte a una corte civile, libera e neutrale, ciò che la memoria e la coscienza non ha dimenticato, nonostante da quei tragici avvenimenti siano ormai passati 40 anni.
Come già successe nel precedente processo del 2006, Cgil, Cisl e Uil si sono dichiarate a sostegno delle parti civili, familiari di sindacalisti di origine italiana che subirono e pagarono con la vita la propria appartenenza al movimento operaio e il proprio impegno politico.
*Dipartimento politiche globali della Cgil