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Il processo di liberalizzazione avviato all’inizio degli anni Novanta ha tradito davvero le attese? E questo è avvenuto perché era un progetto sbagliato oppure perché il progetto è rimasto incompiuto? Interrogativi pesanti, che fotografano una situazione cruciale, uno dei nodi irrisolti del sistema- Italia.
Su questi interrogativi hanno discusso a Milano cinque personaggi che hanno differenti punti di vista e differenti esperienze alle spalle: Alberto Biancardi (Cassa conguaglio settore elettrico & Arel), Franco Debenedetti (Cir & The Adam Smith Society), Marcello Messori (Università degli Studi di Roma Tor Vergata), Massimo Mucchetti (Corriere della Sera), Massimo Tononi (London Stock Exchange Group). L’occasione è stata la presentazione a metà novembre del libro "Stato e mercato nella Seconda Repubblica", di Emilio Barucci e Federico Pierobon.
Il lavoro di Barucci e Pierobon offre un quadro allarmante di declino perché, in sintesi, si ricava che lo Stato fa male il suo mestiere, non è capace di esprimere obiettivi di lungo periodo, non li realizza in modo trasparente e neppure si dimostra lungimirante. Per effetto delle carenze di regolazione, le imprese pubbliche spesso operano sul mercato come soggetti privati imitandone i comportamenti monopolistici. A giudizio di Biancardi va innanzitutto posto rimedio allo stato disastroso dell’amministrazione pubblica.
Ma non basta neppure che i privati facciano il loro mestiere mentre, dal lato pubblico, ci si affida solo ai tre strumenti d’intervento sul mercato, vale a dire a imprese pubbliche lungimiranti, autorità di regolazione e regole trasparenti. "E’ chiaramente troppo poco – aggiunge – anche perché esistono scelte strategiche, come il nucleare, che richiedono un’effettiva discussione di merito che non è mai stata fatta". Approfondendo le motivazioni che hanno mosso l’avvio del processo di modernizzazione, gli autori propendono per l’ipotesi che questa scelta "non sia stata il frutto della maturazione di una posizione ‘politica’ o ‘culturale’, quanto di uno stato di emergenza delle finanze pubbliche e della gestione delle partecipazioni statali". Franco De Benedetti, che dal Senato ha partecipato direttamente alla produzione legislativa del periodo, individua invece nella "politica" le ragioni di fondo che hanno innescato il processo e che l’hanno successivamente fatto arenare, per l’opposizione dei soggetti che ne avrebbero tratto un danno.
"Esiste un legame concettuale e logico – sostiene – fra l’introduzione del sistema maggioritario e uninominale che avrebbe fatto entrare la concorrenza nella politica, e la spinta verso le liberalizzazioni per favorire la concorrenza fra le aziende sul mercato. Il punto è che, a quindici anni di distanza, vediamo che non è cambiato molto rispetto all’inizio del percorso". Allora, forse, la causa dell’insuccesso e della perdita di competitività del sistema potrebbe essere ascritta a un fattore diverso, e sovraordinato rispetto alla proprietà delle aziende. "Non può essere – si chiede – che l’incapacità dell’impresa privata e di quella pubblica siano dovute al tentativo, che accomuna entrambi i soggetti, di volgere a proprio vantaggio le nuove regole per estrarre rendite dall’attività economica, il privato cercando la complicità del potere politico, il pubblico utilizzando la maschera di soggetto che agisce in modo coerente come Stato gestore?".
Marcello Messori è invece persuaso che l’esito deludente della nuova costituzione economica vada essenzialmente ricercato all’interno del sistema economico. La tentata ridefinizione dei rapporti fra Stato e mercato ha provato a spostare il pendolo da obiettivi di stabilità a obiettivi di efficienza e trasparenza. In coerenza con tale disegno, anche le imprese a controllo pubblico avrebbero dovuto sottoporsi alle regole e alla disciplina del mercato. Ma più concorrenza e nuove regole avrebbero dovuto ampliare il potenziale di crescita del sistema economico mentre invece, certamente anche per effetto di fattori esogeni, si è assistito a un lungo periodo di stagnazione. In più il peso della spesa pubblica sul Pil, inizialmente in leggera discesa, è ritornato più o meno al livello dell’inizio degli anni Novanta. "Indicatori – sostiene Messori – ampiamente sufficienti per riconoscere che qualcosa in questo modello non ha funzionato oppure, estremizzando, che il progetto è stato interrotto così presto da non costituirsi neanche come modello concreto". Tre considerazioni avvalorano questa tesi. L’enfasi posta sulla concorrenza era dovuta al fatto che fosse allora poco presente e assai poco praticata, in particolare nei servizi.
"Il nostro settore bancario era uno dei più inefficienti al mondo – ricorda - e non di meno aveva la redditività più alta a livello europeo". In secondo luogo il ruolo di regolatore assegnato allo Stato non è riuscito a concretizzarsi appieno, mentre il disegno di una nuova costituzione economica prevedeva che lo Stato potesse continuare a svolgere svariate funzioni, interagendo in modo più complesso con il mercato. Infine, il fattore efficienza nel modello originario non era sufficientemente distinto dal fattore equità, comportando una difficile interazione fra i due concetti. "In sostanza – spiega Messori – non si è riusciti a tenere assieme equità sociale ed efficienza, forse perché si è tentato di giustapporre istituzioni molto ‘continentali’, che caratterizzavano il nostro paese, con altre istituzioni di tipo anglosassone. Si è proceduto a un tentativo d’innesto che ha provocato un’azione di rigetto: credo che sia stata questa l’origine del fallimento del modello, vale a dire l’incapacità di tener conto della complessità dei ruoli da assegnare allo Stato".
La crisi finanziaria, che ha indotto in alcuni paesi massicci interventi pubblici, ha riaperto la discussione sui limiti e la natura dell’intervento statale. "Andrebbe approfondita – aggiunge Messori – la possibilità di costituire un sistema pubblico-privato nel quale mercato e Stato possano interagire molto più intensamente, e a questo fine sarebbe molto utile poter contare su di una diffusa presenza di associazioni intermedie, un patrimonio del nostro paese che negli ultimi anni è andato distrutto". Le difficoltà del presente sono richiamate anche da Massimo Mucchetti, che afferma in modo icastico: "Mi sembra che quella nuova costituzione economica cui abbiamo cercato di porre mano negli anni Novanta, che abbiamo scritto per metà e applicato per un quarto, dovremmo riscriverla anche per quel quarto, non tanto per tornare alla situazione precedente ma per domandarci quale sia il modo più utile per andare avanti in una situazione profondamente cambiata". La convinzione che il processo avviato vent’anni fa, con tutti i suoi limiti, abbia fatto del bene al nostro paese e che debba essere riproposto, affidando le imprese ancora in mano pubblica a meccanismi di disciplina, di governo e di regole proprie del mercato è espressa da Massimo Tononi, sulla base della sua esperienza maturata all’Iri, in Goldman Sachs e al Tesoro.
"È quasi banale sottolineare che il management dell’impresa pubblica subisce le interferenze della politica e delle corporazioni, finendo per rinviare le decisioni difficili ed evitare quelle rischiose, anche quando sarebbero essenziali ad assicurare la sua competitività". Un’opinione controcorrente, quella di Tononi, perché oggi si è favorevoli alle privatizzazioni solo nelle situazioni patologiche e, come insegna il caso Alitalia, non necessariamente esse vengono preservate "dall’intervento devastante della politica". La discussione ha riproposto più interrogativi che certezze. Ma alcuni punti fermi prova a elencarli Emilio Barucci. Le privatizzazioni, pur con tutti i loro limiti, hanno rappresentato un fattore di sviluppo per il paese. La regolazione ha funzionato quando le sono stati assegnati compiti precisi.
Il vero nodo da affrontare è quell’ambito pubblico in cui lo Stato non è né imprenditore né regolatore, ma agisce come programmatore e finanziatore. "Abbiamo una pubblica amministrazione che non si è ammodernata, e questo ritardo si manifesta nell’assenza di una politica industriale, in particolare nel Mezzogiorno, e nella difficoltà a realizzare le infrastrutture". Dunque anche Barucci, come Messori, è convinto che sia necessario individuare nuove forme d’intervento pubblico soprattutto là dove il mix tra privatizzazione e regolazione non ha dato buoni frutti.