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Il M5S ha l’indubbio merito di aver imposto nell’agenda politica italiana una questione che troppo a lungo era stata trascurata dai governi che si sono succeduti: l’opportunità di introdurre anche in Italia un reddito di garanzia per chi si trova più o meno provvisoriamente in povertà.
Non è la prima volta che il tema viene sollevato. Lo aveva fatto già la prima commissione Povertà, la commissione Gorrieri, nel lontano 1986. Il tema era stato ripreso dalla commissione Carniti nel 1996, portando alla sperimentazione del Reddito minimo di inserimento. Nel governo Letta, il ministro del Lavoro Giovannini aveva costituto una commissione ad hoc, che aveva definito una proposta tuttavia mai fatta propria da quel, breve, governo.
È sempre mancato il consenso necessario, non solo per legittime riserve su costo, efficacia, rischi di una misura di questo genere, ma anche perché essa non era ritenuta pagante sul piano del consenso elettorale. Anche la meritoria costituzione dell’Alleanza contro la povertà, che raccoglie soggetti diversi, ha rischiato di avere una semplice funzione di testimonianza, tanto più che alcuni dei soggetti che la compongono, a partire dai sindacati, hanno altre priorità e interessi da far valere quando si discute di come distribuire le risorse.
Solo quando il M5S ha fatto del Reddito di cittadinanza la propria bandiera, raccogliendo consensi in misura molto maggiore di quanto previsto, l’Alleanza ha cominciato a trovare ascolto e, faticosamente, quasi obtorto collo, si è arrivati alla sperimentazione e poi alla messa a regime del Reddito di inclusione, il Rei. Esso tuttavia è troppo sottofinanziato per essere quella misura universale di sostegno al reddito dei poveri che esiste ormai in tutti Paesi Ue, Grecia compresa, oltre che in altri Paesi sviluppati e in via di sviluppo.
Per questo non è condivisibile la posizione di chi concentra le proprie critiche al progetto di legge finanziaria del governo proprio sul finanziamento previsto per il Reddito di cittadinanza. L’entità del finanziamento previsto, infatti, si avvicina molto a quanto stimato per coprire tutti i poveri assoluti estendendo e irrobustendo il Rei. Se si deve tagliare sulla redistribuzione, bisogna guardare altrove, dal condono fiscale a quota 100 per andare in pensione, che favorisce i lavoratori in posizione più forte, all’eliminazione dell’Imu sulla prima casa.
Il Reddito di cittadinanza M5S nasce tuttavia con due vizi di origine, cui se ne stanno aggiungendo altri da quando il movimento, giunto al governo in alleanza con la Lega e dovendo fare i conti con le diverse priorità e la cultura di questa, ne va definendo concretamente contorni e condizioni in un modo che ne sta cambiando radicalmente i connotati.
Il primo vizio sta nel nome stesso – Reddito di cittadinanza –. Questo termine è utilizzato nella letteratura e nel dibattito internazionale per indicare un reddito – non necessariamente sufficiente a soddisfare i bisogni di base – dato a tutti in modo incondizionato (anche se con qualche sfumatura diversa, si vedano per esempio le differenze tra il Reddito di partecipazione di Atkinson e il Reddito di partecipazione di Van Parijs e Vanderborght).
Fin dall’inizio, le proposte M5S non prevedevano di erogare un reddito a tutti i cittadini e senza condizioni, contrariamente a quanto denunciavano e in parte tuttora continuano a denunciare gli oppositori del Reddito di cittadinanza pentastellato. Si trattava, infatti, di un reddito destinato a “disoccupati poveri”, i quali, in cambio, avrebbero dovuto fare ricerca attiva di lavoro e non rifiutare più di un certo numero di offerte di lavoro. Anche se la dicitura (Reddito di cittadinanza) e le posizioni di alcuni rappresentanti pentastellati, a partire da Grillo, favorevoli a un basic income vero e proprio, poteva indurre alla confusione.
Nella definizione delle caratteristiche dei destinatari come “disoccupati” e delle contropartite attese era, tuttavia, insito il secondo “vizio” originario, ovvero che sia sempre e solo la mancanza di lavoro a determinare la povertà e che l’accesso a un’occupazione faccia fuoruscire automaticamente dalla povertà. Anche se, nello stimare l’importo base e il costo complessivo della misura, il riferimento non era ai “disoccupati”, ma ai “poveri relativi”, due popolazioni che non coincidono, neppure se, invece della povertà relativa, si considerasse quella assoluta, potendoci essere disoccupati che, vivendo in famiglie con un buon reddito, non sono poveri dal punto di vista dell’accesso al consumo; così come ci sono occupati che sono “poveri relativi”, e anche “assoluti”, perché il loro reddito non è sufficiente a far superare la soglia della povertà alla loro famiglia.
Nel 2017, si trovava in povertà relativa il 37% e in povertà assoluta il 27,5% delle famiglie con persona di riferimento in cerca di occupazione. Ma si trovava in povertà relativa anche il 10,5% (in povertà assoluta il 6,1%) di tutte le famiglie con persona di riferimento occupata, l’11,3% (6,6% in povertà relativa) se lavoratore dipendente, il 19,5% (l’11,8% in povertà assoluta) se operaio o assimilato. Non solo. Quella di disoccupato è una condizione individuale, mentre quella di povero relativo è sempre valutata su base famigliare, una questione mai chiarita nelle originarie proposte pentastellate, non solo in relazione all’individuazione della popolazione di riferimento, ma anche per quanto riguarda il tipo di sostegno da offrire, accanto al reddito.
Se infatti il destinatario è il disoccupato, povero perché privo di lavoro, della famiglia si terrà conto eventualmente solo per calcolare l’ammontare del sostegno, non per valutare anche i bisogni dei singoli componenti la famiglia, gli effetti che la povertà e il vivere in contesti poveri produce su di loro e le loro opportunità (si pensi ai bambini) e neppure per valutare se e quanto una particolare composizione famigliare – presenza di bambini piccoli, di persone non autosufficienti – svincoli la stessa possibilità di presentarsi sul mercato del lavoro.
L’individuazione dei Centri per l’impiego come unici interlocutori dei beneficiari nasce da questa visione restrittiva. È vero che anche in Germania (ma non nella maggioranza degli altri Paesi europei) l’assistenza economica è ora amministrata dai Centri per l’impiego, in collaborazione tuttavia con i servizi sociali comunali, che hanno la responsabilità di seguire i beneficiari che hanno bisogno anche di altre forme di sostegno, specie se sono presenti minori.
Un altro vizio d’origine è quello di considerare il Reddito di cittadinanza come una politica del lavoro, sia pure in forma indiretta: destinata appunto ai disoccupati poveri, ritenuti in quanto tali incapaci di trovarsi da sé un’occupazione per caratteristiche personali, o per mancato incontro tra domanda e offerta, piuttosto che (anche o soprattutto) per mancanza di domanda. Questo aspetto si è andato sempre più accentuando, forse nel tentativo di contrastare le accuse di assistenzialismo che vengono sia dall’alleato leghista, sia dall’opposizione.
Invece di criticare l’idea che fornire assistenza ai poveri sia sbagliato e produca sempre dipendenza, i pentastellati giustificano il Reddito di cittadinanza come anticamera per la messa al lavoro di masse di disoccupati. In totale continuità con gli ultimi governi, sembrano considerare la disoccupazione una conseguenza delle caratteristiche dell’offerta: troppo rigida, troppo garantita, dicevano i governi precedenti, introducendo dosi massicce di flessibilità che spesso si traducevano in precarietà tout court. Pigri, non informati delle possibilità di lavoro esistenti, a rischio di rimanere “seduti sul divano”, suggeriscono i pentastellati a proposito dei disoccupati poveri.
Che ci sia bisogno di Centri per l’impiego più efficienti, di servizi di riqualificazione e accompagnamento al lavoro per fasce di popolazione a bassa qualifica o con qualifiche obsolete, è indubbio. Ma confondere le politiche di sostegno al reddito con le politiche attive del lavoro genera solo confusione, oltre che aspettative a rischio di delusione. Sarebbe invece opportuno introdurre incentivi per chi, ricevendo il Reddito di cittadinanza, riesce anche a procacciarsi un reddito parziale nell’economia formale. È ciò che avviene in molti sistemi di reddito minimo in Europa.
L’ultimo (per ora) passaggio non è un’accentuazione di alcuni vizi di origine, ma una vera e propria metamorfosi. Il riferimento è, da un lato, all’esclusione degli stranieri non comunitari, in spregio ai principi costituzionali e alle norme europee, e dall’altro all’idea che il reddito venga erogato su una carta di debito non utilizzabile per incassare denaro liquido, ma solo per spese per consumi ritenuti, non si sa bene da chi e come, “adeguati a un povero”. Come ha insegnato l’esperienza del Sia (Sostegno per l’inclusione attiva), solo parzialmente corretta con il Rei, questo sistema espone all’umiliazione di vedersi negati alla cassa alcuni prodotti. Rende difficile fare la spesa in negozi privi di bancomat o che non accettano volentieri il bancomat per piccole spese. Lascia tutta la somma in mano a una persona sola, il titolare della carta, anche in una famiglia in cui ci sono più adulti.
Di più: nella versione pentastellata, l’ammontare cui si ha diritto deve essere speso entro il mese, pena la perdita dell’avanzo, senza nessuna possibilità di pianificare le spese – bollette, articoli di abbigliamento, articoli per la casa – nel medio periodo. In breve, da una misura proposta nella logica della cittadinanza si è approdati a una visione ottocentesca che distingue tra poveri meritevoli e immeritevoli e considera anche i primi come soggetti a cittadinanza limitata.
Chiara Saraceno è Honorary fellow presso il Collegio Carlo Alberto di Torino