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Partiamo dai dati dell’Istat e da quello che ha colpito di più: la consistente presenza, nell’ampia fetta dei poveri dei nostri giorni, della figura del lavoratore povero, quello che è stato inquadrato sotto la definizione di woorking poor. È sembrata la sorpresa più sconvolgente portata dalla crisi: una novità che denuncia l’impoverimento progressivo delle famiglie e dichiara solennemente il crollo di quello che finora era considerato, tanto dagli studiosi quanto dal senso comune, il baluardo più forte (e perciò il rimedio più sicuro) contro la miseria economica.
Ne parliamo con Enrica Morlicchio, sociologa dell’Università di Napoli, autrice di un vero e proprio trattato sulla povertà (Sociologia della povertà) – in cui il fenomeno è indagato e spiegato nelle sue dimensioni, e nella sua natura, di ieri e di oggi – del quale è prevista l’uscita a fine agosto, per le edizioni del Mulino. Per la studiosa, però, la verità dei numeri dell’Istituto di statistica è più complicata, e anche sulle definizioni ha delle obiezioni da muovere.
“Credo che vada fatta un po’ di chiarezza sull’aumento dei working poor, partendo appunto dalle definizioni”, precisa subito. “Ciò che definisce la condizione di working poor – spiega – è in realtà una collocazione marginale nel mercato del lavoro: sono ‘poveri’ che lavorano saltuariamente e in condizioni di totale sottoremunerazione. Altro fenomeno è l’impoverimento dei lavoratori dipendenti stabilmente occupati che va considerato con adeguata attenzione perché in esso si manifesta il rapporto tra povertà e condizioni di precarietà oggi. Rispetto a ciò tuttavia non si registra al momento un peggioramento, almeno stando ai dati dell’Istat.
L’incidenza della povertà relativa – il rapporto tra famiglie povere e famiglie nel complesso con il quale si misura la povertà – tra le famiglie con capofamiglia occupato è rimasta invariata negli ultimi due anni e si attesta intorno al 9 per cento per le famiglie il cui capofamiglia (il breadwinner, secondo l’espressione sociologica prevalente, la “persona di riferimento” secondo la terminologia dell’Istat) risulta occupato come lavoratore dipendente e al 15 per cento per quelle con capofamiglia operaio. Che poco meno del 10 per cento delle famiglie di lavoratori e il 15 per cento delle sole famiglie operaie (il 30 nel Mezzogiorno) siano povere è un dato certamente preoccupante che deve far riflettere, ma è del tutto superfluo ritenere che esso sia peggiorato al semplice scopo di attirare l’attenzione su condizioni di sottosalario storicamente diffuse nel nostro paese”.
Rassegna Sulle definizioni si può discutere; resta fondamentale la domanda riguardo a cosa sia avvenuto o stia avvenendo, sotto i colpi della crisi, nella parte più povera, debole, del nostro paese.
Morlicchio Prima di rispondere alla sua domanda vorrei ricordare che l’incidenza della povertà si calcola con riferimento all’andamento della spesa media procapite; essa pertanto può anche rimanere stabile o addirittura diminuire nei periodi di recessione economica. I dati resi noti di recente dall’Istat mostrano, infatti, che l’incidenza della povertà relativa è rimasta sostanzialmente stabile sia nel Mezzogiorno (dove è pari al 23 per cento) sia nella media italiana (circa l’11 per cento). Questo apparente paradosso, per cui la povertà non aumenta in tempo di crisi, è dovuto a due principali fenomeni. Da un lato le famiglie possono temporaneamente attingere ai risparmi per mantenere lo stesso livello dei consumi, e infatti si è ridotta la propensione al risparmio (una famiglia meridionale su due dichiara di non poter far fronte a spese impreviste). Dall’altro, riprendendo un esempio di Livi Bacci, si può dire che come avviene in una corsa ciclistica se la velocità rallenta, chi è rimasto indietro riesce ad agganciare il gruppo dei corridori pur rimanendo nelle posizioni di coda.
Rassegna E dunque?
Morlicchio Dunque non è al dato aggregato che dobbiamo guardare, ma a come si modifica la composizione sociale della povertà in parte anche “sotto i colpi della crisi”, per riprendere la sua espressione. Il peggioramento delle condizioni di vita delle famiglie meridionali è davvero impressionante: in soli due anni, tra il 2009 e il 2011, l’incidenza della povertà delle famiglie con tre e più figli minori, residenti nel Mezzogiorno, è passata dal 37 al 50,6 per cento: un balzo di oltre dieci punti percentuali. Questo tipo di famiglia risulta tra l’altro ancora diffuso nel Mezzogiorno (dove rappresenta circa il 10 per cento del totale) a differenza del Centro-Nord dove è minoritario. Anche le famiglie con capofamiglia al di sotto dei 35 anni residenti nel Mezzogiorno non se la passano bene: tra il 2009 e il 2011 l’incidenza della povertà aumenta dal 19 al 24 per cento (una su quattro è dunque povera). Si tratta di coppie di giovani con contratti a tempo determinato – le cosiddette “coppie flessibili” – che sono state colpite duramente dalla crisi e dalla riduzione anche delle opportunità di lavoro in altre regioni d’Italia. Anche per i giovani che non lasciano la famiglia di origine il rischio di povertà è incombente: nelle famiglie che l’Istat definisce “con membri aggregati” (coppie o genitori soli che vivono sotto lo stesso tetto con figli e nipotini, o con fratelli e genitori anziani) l’incidenza della povertà passa dal 33 al 42,6 per cento: un aumento di dieci punti percentuali in soli due anni. La crisi evidenzia come una cartina di tornasole il carattere coatto, forzato, di questa forma di solidarietà intrafamiliare che era tuttavia preesistente, in quanto rappresenta una caratteristica di fondo del nostro modello di povertà.
Rassegna Nel passato, leggendo le diverse indagini sulla povertà che da metà degli anni ottanta si sono piuttosto regolarmente susseguite, si aveva come l’impressione che il fenomeno si presentasse all’incirca sempre uguale a se stesso, con poche variazioni nei numeri e nelle percentuali. Oggi è diverso, come se ci sia stato un salto di qualità nella natura e nella composizione del fenomeno…
Morlicchio Le caratteristiche di fondo del modello italiano di povertà sono molto resistenti nel tempo e anzi vanno accentuandosi: un’elevata concentrazione nel Mezzogiorno, la caratterizzazione familiare, la trasmissione intergenerazionale. La diffusione di forme di povertà grave, anche di tipo alimentare, farebbe pensare a condizioni simili a quelle già sperimentate nel dopoguerra; ma diverso è il contesto storico e in parte diversi sono i soggetti colpiti pur nella sostanziale stabilità del modello.
Rassegna Se guardiamo le misure “nazionali” di contrasto alla povertà, alla povertà estrema, troviamo poco: carta acquisti, aiuti per le tariffe elettriche, e poco altro.
Morlicchio L’aggravamento dei dati sulla povertà non è solo un riflesso della crisi economica, ma anche delle scelte di politica economica e sociale e in particolare dei tagli lineari della spesa pubblica. Basterebbe ricordare che tra il 2008 e il 2011 il Fondo nazionale delle politiche sociali, il Fondo per le politiche per la famiglia, il Fondo per le politiche giovanili e il Fondo sociale per gli affitti sono stati tutti ridotti dell’80 per cento circa, mentre il Fondo per la non autosufficienza e il Fondo nazionale per l’infanzia (il cosiddetto Piano nidi) sono stati del tutto azzerati. Questi tagli hanno colpito soprattutto il Mezzogiorno, il cui sistema locale di welfare dipende in misura maggiore dai trasferimenti statali e regionali mentre i Comuni del Centro-Nord finanziano le politiche sociali in larga parte con risorse proprie. I divari maggiori si registrano per gli interventi per le famiglie e i minori, la cui spesa in Calabria (23 euro) è otto volte inferiore a quella delle regioni con livello di spesa più elevato, e per le persone disabili (spesa sette volte inferiore): non sorprende che nelle famiglie in cui sono maggiormente presenti bambini e soggetti bisognosi di cure, i livelli di povertà siano più alti. In un paese che ha fatto della retorica della famiglia un tratto identificante dovrebbe destare una qualche preoccupazione politica il fatto che secondo un recente rapporto di Save the Children, redatto in collaborazione con l’Istat e con la Banca di Italia, un terzo dei bambini che vivono con un solo genitore, o in famiglie con capofamiglia senza titolo di studio o con la sola licenza elementare, sono poveri e lo stesso vale per la metà dei bambini che vivono in famiglie con capofamiglia al di sotto dei 35 anni.
Rassegna Da qualche anno non si menziona nemmeno più il reddito minimo di inserimento.
Morlicchio L’Italia, è stato più volte ribadito, è l’unico paese europeo insieme alla Grecia a non avere una politica nazionale di sostegno al reddito delle famiglie povere non categoriale (che non riconosca cioè solo i bisogni di particolari categorie come gli anziani o le famiglie numerose). Provvedimenti come la social card si ispirano a sistemi residuali di welfare, come quello americano, che gli stessi Stati Uniti si stanno sforzando di superare. L’idea di moda anche in ambienti della sinistra di un “welfare di comunità” rischia di spostare inopportunamente le responsabilità della cura oltre che sulla famiglia, da sempre il maggiore ammortizzatore sociale italiano, sulla rete associativa esistente, per giunta in un contesto di forte riduzione dei trasferimenti di risorse pubbliche allo stesso mondo associativo. Si tratta evidentemente di uno scenario preoccupante nel quale non agisce alcun principio di sussidiarietà orizzontale, quanto piuttosto una più “emergenziale” reazione, che tende a occultare l’arretramento del ruolo pubblico nella cura dei soggetti più vulnerabili e socialmente marginali, che si risolve invocando la responsabilità collettiva e il coinvolgimento della comunità.
Rassegna Allargando lo sguardo all’Europa, c’è un modello che può offrirci spunti da seguire? Non è curioso che, mentre si parla di spread e di fondi di garanzia per i debiti degli Stati, non si pensi a una strategia comune di lotta alla povertà, proprio nel momento in cui ce ne sarebbe più bisogno, in modo da aiutare non solo le banche ma anche le persone in difficoltà?
Morlicchio Gli esempi migliori, forse, non vengono dai paesi europei, anche se Svezia e Danimarca restano modelli virtuosi, ma dai paesi dell’America Latina, come il Brasile o l’Argentina, dove sono stati realizzati notevoli investimenti per ridurre i tassi di povertà e di dispersione scolastica mediante programmi come “La Bolsa Familia”, introdotta dal governo Lula. Tornando all’Italia oltre a una misura nazionale di sostegno al reddito che interessa le famiglie per cosi dire “normali”, che non presentano problematiche ulteriori al di fuori di una cronica scarsità di reddito, occorre intervenire su situazioni particolari attraverso un Piano straordinario nazionale di contrasto alla povertà minorile, politiche volte a favorire una maggiore partecipazione al mercato del lavoro delle donne con bassi titoli di studio, allo scopo di incrementare il numero di percettori di reddito in famiglia, politiche di riqualificazione urbana “molto sociali” e non occasionali, con un’attenzione particolare alla comunità rom e alle situazioni più marginali di inserimento degli immigrati, programmi individualizzati per giovani con precedenti penali e giovani madri con mariti in carcere allo scopo di sostenere percorsi di uscita dai circuiti criminali. La situazione di crisi fiscale certamente richiede di introdurre elementi di universalismo selettivo, individuando obiettivi prioritari e adeguate forme di selezione dei beneficiari, ma ciò non può esimere dallo sforzo di trovare le risorse per intervenire. Del resto anche ponendosi in un’ottica di spending review, ciò comporterebbe un bel risparmio in termini di spesa futura per l’ordine pubblico e per l’assistenza a persone così provate dalla vita da non avere più risorse economiche e personali da mettere in campo, e che graverebbero in misura maggiore sui bilanci pubblici, a meno che non si voglia essere del tutto indifferenti alla loro sorte. Anche nel campo della lotta alla povertà si sperimenta la sostenibilità.