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Da un bel po’ di tempo si aspettano buone notizie sulla disuguaglianza, in Italia e nel mondo. Pochi giorni fa, leggendo qualche giornale italiano, molti devono avere pensato che quelle buone notizie, attraverso un rapporto della Banca Mondiale dal titolo “Poverty and shared prosperity”, fossero finalmente arrivate. Come dubitarne di fronte a titoli “sparati” e virgolettati come questo: “Banca Mondiale a sorpresa: “La globalizzazione riduce povertà e disuguaglianze” (Repubblica, 4 ottobre)?
Una lettura neanche troppo attenta del rapporto – accoppiata a una visione minimamente articolata delle complesse questioni relative alla povertà e alla disuguaglianza – rende però assai difficile considerare titoli come quello appena ricordato una buona sintesi dei suoi contenuti e, soprattutto, spinge a concludere che le notizie non sono troppo buone, anzi.
Di per sé il fatto che il 40% della popolazione con redditi più bassi abbia visto crescere il proprio reddito medio più della media della popolazione nazionale (in questo consisterebbe la diffusione della prosperità, secondo la Banca Mondiale) vuol dire molto poco in termini di riduzione della disuguaglianza. La verità è che se – come si evince dai principali risultati del rapporto – la povertà nel mondo è in calo, ed è in calo anche la disuguaglianza a livello globale (misurata, cioè, tra tutti i cittadini del mondo senza tenere conto dei confini nazionali), questa riduzione è il frutto di una diminuzione della disuguaglianza tra Paesi (cioè, in definitiva, tra i redditi medi dei Paesi) e di un aumento della disuguaglianza all’interno dei Paesi stessi.
Iniziamo dalla riduzione della povertà estrema, che è consistente, ma – come riconosce la stessa Banca Mondiale – non tale da assicurare il raggiungimento dell’obiettivo del 3% entro il 2030; e infatti oggi siamo ancora al 12,7%. Le questioni rilevanti riguardano: a) la fissazione della soglia al di sopra della quale non si è considerati poveri; b) la comparazione dei redditi di cittadini residenti in aree diverse del globo; c) il significato di “sollievo sociale” che può essere riconosciuto al mero superamento della soglia.
La fissazione della soglia (oggi pari a 1,90 dollari al giorno) presuppone l’individuazione di un paniere di beni al quale occorre avere accesso per non essere considerati poveri estremi. Tale individuazione è necessariamente problematica, in quanto risente, inevitabilmente, di giudizi di valore e convenzioni sociali che mutano nello spazio e nel tempo: potremmo considerare rappresentativa di uno stato di povertà estrema l’impossibilità di acquistare uno stesso paniere di beni in Italia o in Tanzania o, ancora, nell’Italia attuale o in quella del primo dopoguerra? A seconda del paniere prescelto, avremmo soglie diverse e, quindi, misure diverse della diffusione della povertà.
Il secondo problema nasce dal diverso costo della vita: 10 dollari a Manhattan non sono certo uguali a 10 dollari ad Aflao, nel Ghana. Si rende perciò necessario deflazionare i redditi sulla base dei prezzi che nei diversi Paesi hanno i beni contenuti nel paniere, e la scelta della metodologia di deflazione e comparazione dei redditi individuali (relativa a come calcolare la “parità di potere d’acquisto” e a come definire le scale d’equivalenza familiari) non è certamente neutrale e il numero dei poveri può risentire molto delle scelte compiute.
E veniamo al terzo punto. Anche tralasciando questi aspetti tecnici – che però non sono soltanto tali – e convenendo che la soglia di 1,90 dollari al giorno sia adeguata, possiamo davvero e senza remore rallegrarci del fatto che un numero maggiore di persone l’abbia superata? Varcare questa soglia implica di per sé una modifica nelle condizioni di vita tale da consentire di parlare di reale fuoriuscita dalla povertà? Con qualche decimale in più di dollaro, si aprono forse le strade di un’istruzione, di una sanità e di un’abitazione decenti? Naturalmente, contano i servizi pubblici forniti e non sembra azzardato pensare che i Paesi più poveri nello spazio del reddito siano anche, in generale, quelli che garantiscono meno servizi.
Questo problema può presentarsi, peraltro, anche nei Paesi sviluppati, sui quali il rapporto della Banca Mondiale non si sofferma. Per esempio, oggi negli Stati Uniti sono circa un milione e mezzo le famiglie con un reddito disponibile dell’ordine di due dollari al giorno e queste famiglie sono anche esposte alle carenze del welfare americano. Passando alla seconda evidenza sottolineata nel rapporto, la riduzione della disuguaglianza “mondiale”, va ricordato che in mancanza di un’indagine che rilevi in base a una metodologia omogenea i redditi di tutti i cittadini del globo (anche dei più ricchi e dei più poveri, estremamente difficili da raggiungere nelle indagini), la disuguaglianza mondiale viene calcolata sommando le quote di disuguaglianza fra i redditi medi dei Paesi (la componente between) e all’interno dei Paesi (la componente within).
La Banca Mondiale, sulla base degli studi di Branko Milanovic, segnala come nel corso degli ultimi anni la disuguaglianza complessiva si sia ridotta (l’indice di Gini sarebbe sceso da 0,72 a 0,67, restando comunque altissimo). Tuttavia, le componenti di disuguaglianza between e within hanno seguito andamenti opposti: la prima è caduta (largamente per effetto dell’aumento del reddito medio di Cina e India), la seconda invece è aumentata (il suo peso sulla pur decrescente disuguaglianza globale è passato dal 20 al 35%). Queste due tendenze non possono essere poste sullo stesso piano.
La componente between non è propriamente una misura distributiva, ed esprime la differenza nei redditi medi nelle diverse realtà nazionali (ciascuno pesato in base alla sua popolazione relativa). La sua riduzione dipende unicamente dal fatto che in alcuni Paesi – in primis quelli con la maggior popolazione mondiale – il reddito medio, sospinto dalla crescita economica, di recente è aumentato più che nei Paesi sviluppati. La componente within ha invece una vera dimensione distributiva e il suo peggioramento segnala distanze crescenti praticamente i tutti i Paesi (a eccezione di quelli dell’America Latina, dove il trend non sembra però destinato a continuare). In particolare, è stato così anche nei popolosi Paesi in cui è cresciuto il reddito medio, Cina e India. In quest’ultimo si è di recente appurato che la disuguaglianza è ben più elevata di quanto si ritenesse: l’indice di Gini supera lo 0,50.
La distanza rispetto a chi vive nello stesso Paese appare decisamente più influente sul benessere di ciascuno rispetto alla differenza nei redditi medi fra cittadini di diversi Paesi. Il benessere dipende da “comparazioni” e queste assumono come termine di riferimento quasi sempre chi è parte della propria comunità, variamente intesa. Se un italiano si allontana dal reddito medio dei suoi connazionali si sente, forse, meno deprivato perché i coreani si avvicinano alla media italiana? E se il coreano non più povero vede che le sue distanze dagli altri coreani sono comunque cresciute avvertirà un chiaro miglioramento del proprio benessere? Non si può, quindi, assumere che la disuguaglianza non conti (e sia quindi giustificata) e che sia sufficiente che chi sta peggio guadagni: le condizioni di partenza e l’entità del guadagno di chi sta peggio in rapporto a quello degli altri sono importanti.
Ancora: le conseguenze della disuguaglianza within e between su una grandezza frequentemente assunta come criterio supremo di valutazione, e cioè la crescita economica, sembrano essere molto diverse. Gli studi di cui disponiamo sulla relazione tra disuguaglianza e crescita si riferiscono esclusivamente alla disuguaglianza within e i più recenti ci dicono che una riduzione di quest’ultima fa bene alla crescita (dei singoli Paesi e, quindi, globale). Ma non solo. Le decisioni politiche, non essendo prese da governi globali, sono, naturalmente, maggiormente influenzate dalla disuguaglianza within e quando questa cresce le prospettive volgono al grigio.
È molto istruttivo leggere quello che scrive a proposito della Cina – il Paese maggiormente responsabile della caduta della povertà e della disuguaglianza between – il politologo Minxin Pei in un libro appena uscito. Parlando di crony capitalism (capitalismo clientelare) e del perverso intreccio tra politica e mondo degli affari che ha prodotto privilegi, favoritismi e disuguaglianze scandalose, Pei afferma: “Anche un rovesciamento rivoluzionario del vecchio ordine non sarebbe l’alba di una democrazia liberale. L’eredità del crony capitalism permetterà a coloro che hanno accumulato enormi ricchezze illecite nel vecchio regime di avere una sproporzionata influenza politica nella nuova democrazia, che avrà molte difficoltà e poche possibilità di sopravvivere”.
Di fronte a tutto questo, il pur positivo miglioramento delle condizioni di vita di molte persone assume un significato diverso e non può essere assunto a unico indicatore dello stato effettivo (e del probabile futuro) della sofferenza e del benessere sociali. Non sarebbe così se la riduzione della povertà si accompagnasse a un significativo ridimensionamento delle disuguaglianze all’interno dei Paesi.
Il fatto è che il contrasto delle disuguaglianze, soprattutto quelle all’interno dei Paesi, non può automaticamente derivare dalla globalizzazione. Quest’ultima, al contrario, tende ad accrescere i vantaggi di chi sta nelle posizioni apicali, e favorisce lo sviluppo di oligarchie mondiali. Anche sulla povertà, il contributo della globalizzazione sembra limitato. Di questo si mostra consapevole anche la Banca Mondiale allorché riconosce le difficoltà di sradicare la povertà estrema “doing business as usual”. In breve, solo un cambio radicale delle politiche economiche potrà portarci buone notizie sulla disuguaglianza e la sofferenza sociale.
Maurizio Franzini, professore ordinario di Politica economica alla Sapienza, Università di Roma; Elena Granaglia, professore ordinario di Scienza delle finanze all’Università di Roma Tre; Michele Raitano, ricercatore di Politica economica alla Sapienza, Università di Roma