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Undici (e non 10 come prospettato all'inizio) banche popolari, quelle con attivi al di sopra di 8 miliardi di euro, dovranno entro 18 mesi convertirsi in Spa, cioè in società per azioni, abbandonando il voto capitario, in virtù del quale ogni socio ha un voto, qualunque sia il numero delle azioni possedute. Diciotto mesi che partiranno dall'arrivo del regolamento attuativo della Banca d'Italia, che delineerà le modalità per la trasformazione in Spa.
È quanto prevede in sintesi il decreto legge di riforma delle banche popolari, segmento dell'Investement Compact, analizzato e approvato dal governo nel Consiglio dei ministri dello scorso 20 gennaio e che in questi giorni avvia il suo iter di approvazione con l'esame presso le commissioni Finanze e Attività produttive della Camera.
“Abbiamo troppi banchieri e facciamo troppo poco credito”: con queste parole, il premier Matteo Renzi, in una conferenza stampa del 20 gennaio introduceva un provvedimento che definiva “storico”, in grado di cambiare la natura di istituti come il Banco Popolare, Ubi Banca, Popolare Emilia Romagna, Popolare di Milano, Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Popolare di Sondrio e la Banca Popolare dell'Alto Adige-Volksbank, dopo la deliberata fusione con la Popolare di Marostica. Senza dimenticare le non quotate, come il Credito Valtellinese, la Popolare di Bari e la Popolare dell'Etruria e del Lazio.
Un decreto contro cui punta il dito il sindacato. “La nostra valutazione è che l’azione tramite decreto legge sia sbagliata. La forma popolare e cooperativa può essere migliorata, ma non deve essere azzerata”, spiega Agostino Megale, segretario generale della Fisac Cgil, la categoria dei lavoratori del credito della confederazione di corso d'Italia. Megale pone due problemi, di metodo e di merito: “Innovare è necessario, e i ritardi nel processo di autoriforma ci sono stati: detto questo, non si ravvisano, comunque, i requisiti di ‘necessità e urgenza’. Allo stesso tempo, le banche popolari di minori dimensioni, interessate dal decreto, rischiano di essere oggetto di speculazioni e di diventare preda di banche di maggiori dimensioni”.
Punto, quest'ultimo, già ampiamente emerso, dopo i fatti che hanno investito il “finanziatore renziano” e manager del fondo di investimenti Algebris, Davide Serra, e dopo gli anomali ordini di acquisto su titoli di banche popolari partiti da Londra nei giorni antecedenti il varo del decreto e la notizia di un faro acceso sulla questione dalla Consob, l'Authority che vigila sui mercati, dopo le forti oscillazioni registrate da questi titoli in borsa.
Non solo. Per stare sui temi strettamente connessi al lavoro, Megale osserva come “non c’è alcun legame tra la trasformazione delle principali banche popolari italiane in Spa e le esigenze di crescita e di occupazione che ha il nostro paese”. Questa questione è stata, e lo è tutt'ora, al centro delle rivendicazioni della categoria, anche e soprattutto in questa fase complessa di trattativa per il rinnovo del contratto nazionale, con i documenti “Un modello di banca al servizio del paese” e “Un manifesto per una buona finanza”. Proposte concrete che affrontano i nodi del settore, che – per tornare al decreto popolari – “non possono essere ridotti alla governance delle banche popolari”.
Spiega ancora il leader dei bancari della Cgil: “Concentrare l’attenzione sul fatto che alcune banche – nel complesso meno di un quarto del sistema bancario nazionale – abbiano una governance in cui un socio, a prescindere dalle azioni possedute, possa alla fine esprimere solo un voto è riduttivo rispetto ai veri problemi che ha il settore. Anche in considerazione del fatto che nella discussione sulla riforma del diritto societario si pensa di compiere il passo opposto: un socio a parità di azioni possedute potrebbe esprimere più voti di un altro socio”.
È possibile, a giudizio di Megale, una modifica delle regole sul voto ‘capitario’ e si può intervenire sui meccanismi di assegnazione delle deleghe di voto. “Non è comprensibile nella definizione dei limiti riguardanti le deleghe il vincolo al numero minimo”. Anche perché, oltre ai “tecnicismi”, i fatti ci dicono che in questi anni caratterizzati da una generale contrazione del credito, “le banche popolari hanno sostenuto il sistema economico erogando più credito della media – osserva il dirigente sindacale –. Sono state vicine ai territori, pur nelle difficoltà che hanno colpito l’intero sistema finanziario, e si sono dimostrate necessarie per famiglie e imprese”.
In questi anni gli “scandali” bancari si sono registrati a prescindere dall'asset societario, il che dimostra come il problema non sia la forma giuridica, “ma le capacità, l’onestà di chi ha guidato gli istituti di credito. Siamo di fronte a un sistema in cui l’etica non ha sempre trovato il giusto spazio”. Senza generalizzare, è però fondamentale per Megale “che istituzioni così importanti per la vita del paese siano guidate da persone competenti e di alto profilo etico e morale”.
Quel che è certo è che, in questa discussione, a dispetto di quanto fino a ora registrato, deve essere preminente il ruolo e la funzione dei lavoratori: “Dobbiamo tenere conto che le banche popolari italiane hanno oltre 81.000 dipendenti e 385 miliardi di euro impiegati sul territorio nazionale, pari al 24,6 per cento del mercato. Per quanto attiene al decreto legge in oggetto, sono oltre 60.000 gli addetti delle 11 banche popolari coinvolte”. Gli effetti del decreto popolari, preoccupano sul versante occupazionale: “Degli addetti oggi nelle popolari oggetto del decreto legge, circa il 20 per cento rischia di perdere il posto di lavoro, stando alle stime di Assopopolari, e in ogni caso fusioni e aggregazioni comporteranno la riduzioni di posti di lavoro”.
Insomma, la Fisac dice no al decreto, ma offre soluzioni costruttive per la riforma del settore, che partono dalla ricerca di una soluzione da ricercare nella buona gestione, nella trasparenza, nel coinvolgimento, nelle regole. “Il mondo delle popolari andrebbe corretto e valorizzato in termini di reale partecipazione, anche dei lavoratori”, conclude Megale, che a questo fine chiede l'apertura di un tavolo di confronto sul credito e sul modello di banca al servizio dell’economia reale.