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Strutture fatiscenti e insalubri, sovraffollamento, carenze di personale, turni massacranti. Queste le condizioni in cui sono costretti a lavorare gli agenti del corpo di polizia penitenziaria nella maggior parte delle carceri italiane. Condizioni spesso sottovalutate, ma che influiscono profondamente sul benessere organizzativo del lavoro e, di anno in anno, contribuiscono all’aumento dei livelli di stress correlato e ai conseguenti casi della sindrome di burn out.
Dopo la condanna della Corte europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo (sentenza Torreggiani, gennaio 2013) e i successivi interventi normativi degli ultimi anni, il tasso di sovraffollamento è molto diminuito, passando dal 134% (X rapporto Antigone, aggiornato al 30 novembre 2013) all’odierno 107%. Il numero complessivo dei detenuti è sceso dai 64.047 della fine del 2013 ai 53.495 dello scorso 31 marzo (dati del ministero della Giustizia), a fronte di una capienza regolamentare di 49.545 posti sul territorio nazionale. Ma la situazione delle carceri rimane ancora critica.
E ancora più critica è la situazione della polizia penitenziaria, come testimoniato dai reportage della Fp Cgil nazionale – “Dentro a metà” – realizzati all’inizio di quest’anno nelle carceri “campione” di Rebibbia (Roma), San Vittore (Milano) e Poggioreale (Napoli). Lavoratrici e lavoratori che passano quasi la metà della loro giornata all’interno degli istituti carcerari e che fanno le spese di tutte le condizioni di degrado, carenze strutturali e strumentali, che continuano ad affliggere l’amministrazione penitenziaria. Un esercito di uomini e donne che condivide quotidianamente la propria vita con i detenuti; agenti di un corpo di polizia che, tuttavia, a giudizio di alcuni appartenenti al corpo stesso, “viene considerata di serie B”.
Sicuramente, il primo problema sta nei numeri. Su tutto il territorio nazionale è previsto dal dm 22 marzo 2013 un organico fisso di 45.325 unità. A oggi, invece, ne sono in forza solo 38.300, circa 7.000 in meno. Una carenza di personale, pari a meno 15%, aumentata progressivamente nel tempo (quasi mille agenti in meno dal 2010, più del 2%, secondo un’elaborazione Fp Cgil nazionale su dati del Conto annuale della Ragioneria generale dello Stato) e destinata ad aumentare ancora: tra pensionamenti e persone che vengono riformate, in particolare per motivi di stress, ci sono ogni anno all'incirca 1.400 uscite, contro poco più di 500 assunzioni.
Numeri che nella realtà carceraria contano molto. Nella casa circondariale di Rebibbia, con una popolazione detenuta di più di 1.400 persone, dovrebbero essere impiegati in servizio quasi 1.000 agenti. Solo 800 di questi, però, sono veramente effettivi e operativi, perché 180 risultano in uscita o distaccati in altri uffici amministrativi a svolgere mansioni che non dovrebbero essere di loro competenza. Rebibbia, tuttavia, non è l’unico caso. Nella casa di reclusione di Milano Opera, a fronte di 794 agenti, sono operativi solo in 555, con una popolazione detenuta di 1.281 persone, invece delle 911 previste, con un tasso di sovraffollamento del 141%. E la lista è ancora molto lunga.
Inutile dire come queste sistemiche carenze di personale, che si traducono in sovraccarico di lavoro, stress e scarsa sicurezza, si ripercuotano anche sui turni a cui sono sottoposti gli agenti: spesso costretti agli straordinari e a lavorare fino a 16 ore rispetto alle 8 previste, soprattutto nelle sezioni e nel nucleo delle traduzioni, in cui è prevista la turnazione sulle 24 ore. Criticità a cui si aggiunge il lavoro svolto spesso in strutture fatiscenti e insalubri, che necessitano di interventi di manutenzione e messa in sicurezza, ma per cui i finanziamenti sono spesso al di sotto del reale fabbisogno: solo 4 milioni stanziati contro una richiesta di almeno 40. Sempre la casa circondariale di Rebibbia ha a disposizione solo 24mila euro all’anno per la ristrutturazione complessiva degli edifici, l’equivalente – o quasi – del costo del rifacimento di un appartamento di 80-100 metri quadri.
Detenuti e poliziotti si ritrovano così a condividere quotidianamente spazi umidi, con infiltrazioni d’acqua, muffa ovunque e fili elettrici pendenti, porte e cancelli malridotti, celle piccole, aree e uffici dove si lavora (e si vive) nei seminterrati, spesso completamente fuorilegge. Questo perché molti di tali edifici sono vecchi, centenari, a volte addirittura di origine medievale, come la Fortezza medicea di Volterra o lo spagnolo Forte Langone a Porto Azzurro, riadattati nel corso dei decenni, ma con evidenti problemi strutturali. Condizioni logoranti, che non solo influiscono sulla qualità del lavoro della polizia penitenziaria, ma che si ripercuotono anche sullo stato detentivo.
Si accentuano così anche tensioni e conflittualità all’interno degli istituti, tra detenuti e poliziotti, da cui deriva l’incremento dei casi di aggressione alla polizia penitenziaria: solo nel 2015 sono stati circa 400, circa il 7-8% in più rispetto al 2014. Anche questi numeri evidenziano quanto sia gravoso il lavoro degli agenti penitenziari, non solo dal punto di vista fisico, ma soprattutto sul versante psicologico ed emotivo. “Anche se non sono immediatamente collegabili stress da lavoro correlato e malesseri psico-fisici del personale penitenziario – commenta Massimiliano Prestini, coordinatore nazionale della Fp Cgil nazionale –, l’incremento di casi della sindrome di burn out e dei suicidi tra i lavoratori della categoria, più di 100 solo negli ultimi 10 anni, dimostra l’importanza per la polizia penitenziaria di un servizio di supporto in loco”.
Un “numero verde”, localizzato all’ospedale Sant'Andrea di Roma, è invece il solo servizio a disposizione dei 38mila tra lavoratrici e lavoratori del settore. “Come supporto psicologico garantito è sicuramente poco – prosegue Prestini –. Con il progetto ‘Dentro a metà’ abbiamo cercato di mettere in luce proprio questo aspetto del lavoro del poliziotto penitenziario. E abbiamo cercato di mettere sotto l’obiettivo come i cambiamenti normativi e di organizzazione del lavoro rischiano di diventare inefficaci senza un’adeguata formazione alle spalle e adeguati investimenti in supporti tecnologici di ausilio alla regolare attività: da una parte, si aumenta il carico di lavoro degli agenti e, dall’altra, si vanifica il percorso di reinserimento nella società dei detenuti, costretti all’ozio anziché a lavorare”.
Cosa si può fare perché le cose cambino? “Servono prima di tutto le risorse per assumere personale – conclude Prestini –, ristrutturare gli istituti e predisporre nuove strumentazioni e nuove tecnologie. Allo stesso modo, un’altra via di uscita è investire nell’esecuzione penale esterna, lasciando in carcere solo i detenuti socialmente pericolosi”.